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 Ricerca
La Ricerca parla agli Apicoltori
 
di Massimo Ilari
 
Spesso Apicoltori e Ricercatori non si parlano; sembrano convogli che percorrono strade parallele. «Invece, sono due mondi che devono interagire! Ma attenzione, occorre ragionare sulle modalità di comunicazione. L’inclinazione a tirare conclusioni dalle proprie osservazioni, rischia di complicare il dialogo fra ricercatori e apicoltori nella misura in cui l’apicoltore, che riferisce al ricercatore una sua osservazione, raramente si limita a riportarne il contenuto; molto spesso preferisce riportare la sua conclusione...» ricorda il dottor Francesco Nazzi, Ricercatore dell’Università di Udine, docente del Corso di Apicoltura, che abbiamo sentito per i nostri lettori
 
Quali sono gli aspetti chiave da considerare nel confronto tra mondo della ricerca e mondo della produzione apistica?
Ho enucleato tre questioni che ricorrono spesso nei delicati rapporti tra il mondo della ricerca e quello della produzione, nel campo dell’apicoltura.
Esaminiamoli.
Un primo aspetto importante, secondo me, è quello dell’attenzione ai ruoli che ognuno è chiamato a interpretare in questo contesto. Entrando nello specifico, capita sovente che i ricercatori vengano accusati di non svolgere le indagini più appropriate dagli apicoltori, i quali, a loro volta, vengono talvolta ignorati nonostante il contributo che prestano al mantenimento di un patrimonio fondamentale in termini di impollinazione e servizi ambientali.
Un primo concetto generale che mi piace rimarcare è che dovremmo imparare qualcosa in più dalle api che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno.
Troppo spesso dimentichiamo che nell’alveare ci sono molti “individui” che svolgono diverse attività e che ognuno di essi si specializza e si dedica, con la massima cura, alla propria mansione.

Sembra che delinei un gioco delle parti...
Sì, ha capito perfettamente ciò che intendo affermare. Nel mondo dell’apicoltura si confrontano attori diversi e la loro diversità sta nel ruolo che ricoprono. Credo che occorrerebbe ricordarsi di questa diversità quando si svolge il proprio lavoro.

Può entrare più nel dettaglio?
Certo, tutti i protagonisti del comparto dovrebbero tenere a mente che si chiede ad ognuno di investire il massimo nel campo in cui è coinvolto. Pertanto, è giusto chiedere a un ricercatore la massima serietà nello svolgimento delle proprie ricerche; parimenti è giusto chiedere ad un apicoltore il massimo della serietà nella conduzione del proprio apiario. E non è tutto: non è proficuo che l’apicoltore si impegni in attività sperimentali o il ricercatore si dedichi ad attività pratiche che pure possono sembrare molto interessanti all’apicoltore.
Proverò a spiegare meglio questo concetto con un esempio.
L’apicoltore è come il pilota di un grande aereo passeggeri; ci vogliono capacità particolari per portare a destinazione un velivolo che attraversa spesso turbolenze e tempeste. L’apicoltore solitamente sa bene come condurre il suo aereo anche se non conosce a fondo i dettagli del motore che lo spinge. Il ricercatore invece, non è necessariamente un pilota esperto ma sa come funziona il motore. Ecco, a nessuno verrebbe in mente di far riparare un aereo al pilota, come non si sognerebbe di pretendere dal meccanico istruzioni sull’atterraggio.
Questo il primo concetto.

Il secondo?
La seconda questione riguarda la distinzione tra la ricerca e le sue possibili applicazioni. È un tema ricorrente nel dibattito. Frequentemente, i ricercatori sono accusati di fare tanta ricerca e di lasciare gli apicoltori sguarniti dal punto di vista pratico. In parole povere, ci dicono: «finitela con queste faccende e dedicatevi alla soluzione dei nostri problemi». Che cosa ne penso? Semplice, che non vanno biasimati. Eh sì, perché quando uno di loro ha dei problemi - e gli apicoltori, di questi tempi, hanno problemi molto seri - non può essere biasimato, se chiede aiuto. Non nego che la ricerca, se viene considerata superficialmente, può sembrare, talvolta, inconcludente dal punto di vista pratico a chi non riesce ad apprezzarne l’importanza. Eppure, alla fine, i risultati pratici durevoli sono quasi sempre figli di una ricerca di base che, inizialmente, ha poco o niente a che fare con i problemi impellenti.

Può farci un esempio pratico?
Mi spiego meglio. Torricelli, matematico e fisico italiano del ‘600, s’interrogava se l’aria avesse un peso.
Per risolvere il problema, ideò un esperimento, avvalendosi di un tubo di vetro riempito di mercurio. In questo modo appurò che il peso dell’aria fa risalire il mercurio nel tubo; insomma riuscì a dimostrare che l’aria “pesa”.
Ecco un esperimento che Torricelli sviluppò per rispondere a una domanda scientifica di base: la gente viveva benissimo anche senza sapere che l’aria ha un “peso”; però, come non notare che alla fine dell'esperimento venne fuori l’antenato del barometro, che ognuno di noi guarda la mattina per sapere se pioverà o meno?
Insomma, la ricerca di base produce dei frutti che alla lunga sono utili a tutti e guai a disconoscerne il ruolo: si rischia di interrompere il flusso di informazioni che, infine, sfocia nel mare delle applicazioni.

E il terzo assunto?
Gli apicoltori mostrano una innata inclinazione a sperimentare, al “fai-da- te”, attitudine che per certi versi è alquanto ammirevole. Non a caso, larga parte delle innovazioni tecniche sono frutto di prove ed esperimenti condotti da apicoltori. Ben venga, allora, tale propensione. La faccenda si ingarbuglia quando le sperimentazioni riguardano problemi biologici “complicati”. In questo caso, infatti, può accadere che se le sperimentazioni non sono condotte con tutte le precauzioni del caso, i risultati ottenuti possono essere fuorvianti e addirittura dannosi.
Io ho imparato a “fare ricerca” con il professor Norberto Milani che raccontava spesso una barzelletta.
Il protagonista? Uno scienziato che conduce esperimenti con le pulci. Prende una pulce e le toglie una zampa, poi le dice «salta» e la pulce salta. Gliene toglie due, la sprona con il solito comando, e la pulce salta.
Infine, gliele toglie tutte, e la pulce? Nonostante il comando, non salta. Lo scienziato non ha dubbi «la pulce è diventata sorda».
La morale? Si possono ricavare conclusioni balzane anche da evidenze molto semplici se manca la capacità di progettare un esperimento e interpretarne i risultati. In definitiva, per quanto mi riguarda, il mestiere del ricercatore è quello di formulare ipotesi, progettare esperimenti e valutare i risultati. Proprio queste dovrebbero essere le parole d’ordine dei ricercatori: chi indossa l’abito del ricercatore senza averne il background (è un mestiere che si impara, come quello dell’apicoltore) rischia di prendere cantonate.

Se vogliamo immaginare un futuro nel rapporto fra ricercatore e apicoltore, in due battute, come dovrebbe essere reimpostato? Sulla reciproca fiducia?
Certo, ma a patto che ci sia rispetto del rispettivo ruolo.

Sono due mondi che si possono parlare?
Di più, sono due mondi che si devono parlare! Ma attenzione, occorre ragionare sulle modalità di comunicazione. L’inclinazione a tirare conclusioni dalle proprie osservazioni, rischia di complicare il dialogo fra ricercatori e apicoltori nella misura in cui l’apicoltore, che riferisce al ricercatore una sua osservazione, raramente si limita a riportarne il contenuto; molto spesso preferisce riportare la sua conclusione.
Mi spiego meglio. Raramente l’apicoltore dice «ho trovato delle api morte sul predellino il giorno successivo all’applicazione di una determinata sostanza nell’alveare».
L’apicoltore preferirà dire «La sostanza uccide le api». Così il ricercatore, che sarebbe interessato a capire, si ritrova di fronte non alla descrizione dei sintomi ma alla diagnosi.
Tante volte la descrizione dei sintomi è ritenuta superflua, ed è inevitabile che il ricercatore brancoli nel buio: parte sempre da metà strada.
Ma se la prima metà della strada è sbagliata, va a finire che c'è il serio rischio  di perdersi. Pensate se le api morte sul predellino ci fossero state anche il giorno precedente all’applicazione del prodotto e l’apicoltore non le avesse notate solo perché non era andato in apiario!
Non ci sono vie di fuga, la parola d’ordine è trovare un linguaggio adeguato per questa comunicazione.
A me, ad esempio, interessano molto i dati che vengono dal campo, “i dati” però, non le conclusioni altrui.
L’apicoltore potrebbe dire che il ricercatore non capisce un bel nulla di api «non ha la nostra esperienza, non sa distinguere un’ape da una vespa».
Di una cosa sono sicuro, non ci manca nè l’esperienza nè la conoscenza. Se un apicoltore malizioso mi ponesse questo dubbio, gli farei notare volentieri che il sottoscritto si occupa di api da non meno di vent’anni e, guarda caso, nella mia équipe di ricerca, all’Università di Udine, ci sono tre ricercatori per professione che, per hobby, fanno gli apicoltori.
In ogni modo, se anche nessuno fosse apicoltore nel senso di “produttore di miele”, saremmo “apicoltori” comunque perché, per le nostre ricerche, utilizziamo solamente le api degli apiari sperimentali che curiamo personalmente. Il più vicino di questi apiari si trova a un centinaio di metri dal mio studio e durante l’estate riceve almeno tre visite al giorno.

Come apicoltore potrei, però, controbattere che i tempi di attuazione della ricerca sono così lenti, così macchinosi… Mi devo confrontare con la Varroa, col Nosema, con i Virus…
Dunque dovremmo lasciar stare la ricerca per trovare al più presto delle soluzioni pratiche? Come quel tale che si ostinava a tagliare un tronco d’albero con una sega spuntata perché non aveva tempo per affilarla?
Non siamo lenti, proviamo solo ad essere efficaci, nonostante le risorse disponibili siano spesso inadeguate.
Certo, se si pretende che la soluzione venga “domani”... Se quello che aspettano gli apicoltori è l’eradicazione della varroa… Non solo sarà lenta, ma, probabilmente, non avverrà mai; sono convinto che si tratti di uno di quei parassiti da cui non ci si può liberare.

Quindi lo diamo per certo… è una lotta persa in partenza?
Far sparire la varroa dalla faccia della Terra è impensabile.
Si può pensare, più realisticamente, a una convivenza. Ciò potrebbe verificarsi e su questa strada, per certi versi, siamo “un pezzo avanti” ma devono essere tenute a mente alcune sfaccettature.
Le api sono in grado di sviluppare, autonomamente, meccanismi di tolleranza nei confronti di parassiti e patogeni. Alcuni anni fa, un nostro collega svedese portò su un’isola del Mare del Nord un certo numero di colonie di api, libere di sopravvivere o di morire alle infestazioni di varroa. Nel giro di pochi anni, le famiglie che erano sopravvissute se la cavavano benissimo, anche in presenza di varroa.
Una selezione naturale.
Il problema era che queste api non erano adatte all’«apicoltura», nel senso che non producevano abbastanza miele.
Il punto non è trovare una soluzione, quale che sia. Il punto è trovare una soluzione compatibile con le esigenze, non facili, dell’apicoltore. L’apicoltore non può permettersi di perdere le famiglie che non sono abbastanza capaci di tollerare l’acaro, poiché vuole salvare tutte le sue famiglie, di conseguenza applica dei trattamenti per eliminare la varroa. Applicando questi trattamenti, però, sta attuando, suo malgrado, una vera e propria selezione artificiale delle varroe, poiché sta selezionando, tra le varroe presenti nel suo alveare, quelle più “cattive”, quelle cioè che più frequentemente invadono le cellette di covata per riprodursi, sfuggendo al contempo ai classici trattamenti acaricidi.

Allora che cosa dovrebbe fare l’apicoltore?
Non può fare nient’altro di diverso da quello che sta già facendo, salvo riporre maggior fiducia in chi, nonostante le numerose difficoltà, prova a trovare soluzioni durevoli.
Se poi, chi è nelle condizioni di poterlo fare, applicasse anche qualcuno dei metodi biotecnici basati sulla rimozione della covata, forse si potrebbe compensare la selezione delle varroe “cattive” da parte degli acaricidi con l’eliminazione di parte di esse.
In tutti i casi occorre evitare il “fai da te”, utilizzando solo prodotti autorizzati e attenendosi scrupolosamente alle indicazioni ufficiali.

Gli apicoltori si lamentano che i veterinari si siano trasformati in sceriffi, che non pochi abbiano una scarsa preparazione in apicoltura, e vorrebbero sapere come sono formati all’università. Parlano di “fumus” persecutorio. Lei che ne pensa?
Sul fatto che si comportino come sceriffi, io non ho esperienza diretta. So solo quanto riportano gli apicoltori e ho sentito anche “storie” non particolarmente edificanti, nel senso di un certo atteggiamento inquisitorio.
D’altra parte, ho sentito anche storie su comportamenti poco edificanti di certi apicoltori per quanto riguarda l'impiego di prodotti non autorizzati, ad esempio. Non vorrei che qualcuno avesse la tendenza a comportarsi come sceriffo perché qualcun altro, da parte sua, tende a comportarsi come bandito.
Per fortuna, occorre ricordarlo, sceriffi e banditi sono solo deprecabili eccezioni mentre la maggior parte degli operatori sono persone che fanno seriamente il proprio lavoro.

E la questione della formazione?
Io insegno nella facoltà di Agraria e non di Veterinaria, però credo che non sia previsto nella formazione accademica di un veterinario un esame obbligatorio di apicoltura.
Credo però che i veterinari che si occupano di api dovrebbero disporre delle conoscenze necessarie. In Friuli, tanto per fare un esempio, collaboriamo con i veterinari facendo docenza in corsi di formazione.
È il nostro piccolo contributo.
Noi, che non possiamo cambiare la legislazione universitaria, diamo un aiuto ai veterinari volenterosi.

Per avere una preparazione seria, l’apicoltura non dovrebbe essere inserita nel programma di laurea?
Penso di sì.

Che cosa direbbe agli apicoltori che pensano sia giusto il ricorso agli antibiotici?
Sarebbero da evitare. Per quello che ne so io, non si tratta né di una soluzione definitiva né di una soluzione oculata. Gli apicoltori dovrebbero ricordarsi che una delle ragioni per cui il loro prodotto continua a essere ricercato è la sua “naturalità” e “qualità”. Ergo, occorrerebbe che fosse fatto tutto il possibile per rimarcarne qualità e naturalità. Ogni cedimento su questo aspetto è una specie di boomerang, di autogoal: il miele rischia di essere considerato un dolcificante qualunque e il miele prodotto da apicoltori seri e scrupolosi rischia di essere confuso con il miele prodotto, chissà come, da banditi.

Stiamo lavorando a due progetti presentati a Bruxelles, alla FEDEM.
E al ministero della Salute, in Italia. L’assunto? In presenza di inquinamento ambientale - allevamenti suini, bovini e altro - si è appurato che le api vanno a suggere i liquami, portando così gli antibiotici all’interno dell’alveare e di riflesso nel miele. Se fosse dimostrato in modo inconfutabile, sarebbe giusto imporre un limite residuale per quanto riguarda gli antibiotici? Il fatto che ci sia una deriva ambientale potrebbe porre l’attenzione sul limite.
Da un lato, le autorità devono preoccuparsi di individuare i comportamenti sbagliati, per punirli; dall’altro hanno la responsabilità di garantire la salubrità di qualsiasi prodotto. Il fatto che l’antibiotico venga da “altrove” o dall’apicoltore medesimo attiene al campo delle responsabilità. In questo caso non si può dimenticare che le api di un alveare raccolgono sostanze in molti modi diversi (con l’acqua, con il polline, con il nettare) da una superficie di vari chilometri quadrati, che difficilmente può essere sotto il controllo dell’apicoltore.
In ogni caso, il fatto che un antibiotico venga rilevato rende l’alimento, comunque, meno salubre. E ciò non può non essere importante in vista del consumo di miele che è quello che ci riguarda. Credo che non si possa dire che, siccome gli antibiotici arrivano da altrove, e non a causa dell’apicoltore, allora possono anche essere presenti. Pensate ai bambini.

Ai bambini ci pensiamo, eccome se ci pensiamo. Come sottacere che nel latte ci siano antibiotici e i bambini bevono il latte… e nel miele dovrebbero essere 0… Il residuo 0 non c'è più da tempo.
Naturalmente, posto l’obiettivo della tutela della salute, discrepanze fra i limiti lasciano perplessi, ma restiamo al miele.
Tanti anni fa andai in Corea per un progetto di ricerca ed ebbi modo di assaggiare il miele di Apis cerana, l’ape orientale. Ora io non sono aggiornato sui prezzi attuali ma, allora, un vasetto di miele di Apis cerana costava molte decine di dollari: un prezzo esorbitante. Nonostante ciò i consumatori erano felici di spendere questi soldi perché sapevano che quel miele era prodotto in quei piccoli ritagli di ambiente naturale che ancora ci sono in Corea e quindi era considerato più che una medicina e non si teneva conto del prezzo.
Per farla breve, gli apicoltori dovrebbero combattere una battaglia affinché il loro prodotto sia il migliore possibile a livello qualitativo, il più naturale, così da poter vincere la concorrenza di qualsiasi altro prodotto di qualità inferiore.

E’ giusto che gli apicoltori rispettino le regole?
Non solo dovrebbero rispettare le regole ma dovrebbero adottarne di più stringenti, nel loro stesso interesse. Non sono un economista, questo è il mio punto di vista da biologo che mangia un po’ di miele: pretendo che sia un prodotto di grande qualità e sano, altrimenti c’è lo zucchero.
Insomma, non mi accontento che il miele sia solo a norma di legge, cerco un prodotto all’altezza della sua incredibile origine: il frutto del lavoro di migliaia di raccoglitori su altrettanti fiori profumati. Per fortuna di miele del genere, in Italia, ne viene prodotto ancora molto.
 
 
 IMMAGINI ALLEGATE A QUESTO ARTICOLO: 5 tot.

Udine, 2003. In laboratorio, all’università, Francesco Nazzi (a destra) con Giorgio Della Vedova (a sinistra) e Norberto Milani (al centro).

Evangelista Torricelli (Faenza, 15 ottobre 1608 - Firenze, 25 ottobre 1647) è stato un matematico e fisico italiano. A destra l’esperimento sul peso dell’aria.

Kenya, 2009. In un’arnia africana troviamo la Varroa, ancora ufficialmente assente dall’area centro-orientale.

Corea, 2003. Ginseng e miele di Apis cerana: una prelibatezza ricca di qualità.

Kenya, 2010. All’occorrenza, un buon affumicatore per l’apicoltura si può costruire anche con un barattolo di latta.
 
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© Apitalia - Tutti i diritti riservati
Scritto in data 28/08/2012 da Massimo Ilari
Alla stesura dell’articolo ha collaborato Alberto Nardi
 
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