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 Biologia
E se selezionassimo un'ape resistente alla varroa?
 
di Marco Valentini
 
“Non condivido la selezione che prende in esame le performance e che serve solo ad avere più reddito… Altro discorso selezionare per la resistenza alle malattie: cercare di anticipare quello che capiterebbe all’ape se fosse lasciata libera di combattere la sua battaglia, nello specifico contro la varroa…”
 
Mi piace iniziare questo articolo con un’affermazione che può suonare contraddittoria: sono fortemente contrario alla selezione. Il perché lo si può leggere in una lettera che scrissi tempo fa all’amico Paolo Faccioli e che sottoscriverei ancora oggi parola per parola, anzi!
Come spiegare, quindi, l’apparente incoerenza?
Io la vedo così: trovo negativa la selezione che prende in esame le performance degli individui (in poche parole quelle che sono utili a fare più reddito) perché è lontanissima da ciò che è opportuno per la sopravvivenza della specie ape (la natura non ha interesse per la performance ma solo al mantenimento della specie e alla sua diffusione); invece trovo ammissibile, anche se pur sempre presuntuoso, selezionare per la tolleranza alle malattie, ovvero cercare di anticipare quello che capiterebbe se l’ape fosse lasciata libera di combattere la sua battaglia, nel caso specifico contro la varroa; la varroa stessa, senza l’intervento umano, sarebbe coinvolta nella selezione per contribuire alla risoluzione della controversia, naturalmente col metodo della sopravvivenza del più idoneo tipico della natura; assieme alle api suscettibili, perirebbero anche tutte le varroe più “carogne”, lasciando in vita le più “sagge” ovvero quelle che lasciano sopravvivere l’ospite. In altri termini, la selezione naturale interverrebbe più sul rapporto ape/parassita e non solo su uno o sull’altro dei contendenti.
Allora, perché non lasciare carta bianca alla natura? Ma è ovvio, perché gli apicoltori e l’umanità intera non possono attendere che l’accordo ape-varroa si risolva nei tempi lunghi che solitamente necessitano a tali eventi.
Possiamo credere, però, ancora nell’aiuto della chimica? La storia sta lì a dire un secco no. In passato, abbiamo avuto una fiducia cieca nelle molecole chimiche naturali - a dire il vero non ce n’è nessuna registrata - o di sintesi che siano, ma a ben vedere è stata una fiducia mal riposta. Il risultato? E’ sotto gli occhi di tutti: una varroa sempre più virulenta e resistente alle molecole acaricide e alla loro modalità di somministrazione. E gli apicoltori che ancora oggi esortano le ditte chimiche a sperimentare nuove molecole mi sembra che abbiano capito poco (ma spero di essere smentito) su quello che è successo. Infatti, la molecola chimica (ripeto: naturale o di sintesi) o funziona al 100%, oppure è un’arma che dall’ape (o meglio dall’apicoltore) si sposta alla varroa.
Mi spiego.
Quando un trattamento lascia in vita degli individui è perché questi hanno una qualche resistenza che è o di natura fisiologica (hanno un metabolismo un po’ diverso dagli altri individui che li rende immuni alla molecola) o comportamentale (trovano il modo di “nascondersi” dall’assalto delle molecole tossiche).
Come che sia, in entrambi i casi, essendo la varroa un animale che vive d’istinto, il comportamento di difesa è scritto nei geni. L’anno successivo saranno proprio queste varroe a riprodursi in maggior misura, trasmettendo la loro “trovata” alla prole. Insomma, i trattamenti chimici, alla lunga, selezionano parassiti sempre più aggressivi: ciò è esattamente quanto successo. Spero che tutti gli apicoltori ne siano convinti.
Nel 1983/84, si poteva intervenire contro la varroa aspettando il blocco naturale di covata a fine ottobre, inizi di novembre. Dopo una decina d’anni siamo stati obbligati a realizzarlo a fine agosto, quindi a fine luglio. Ora? Siamo costretti a eseguire anche un lavoro contemporaneo di blocco o asportazione di covata, per riuscire a salvare le api.
Quando utilizziamo una molecola chimica, infatti, è come se dicessimo all’ape: “non ti preoccupare, ti salvo io” ed effettivamente l’ape “ci crede” perché i risultati sembrano darci ragione, ma solo in apparenza.
E ciò perché, contemporaneamente, succede quanto già detto, ovvero che la varroa mette l’elmetto e si prepara alla lotta. Ma non è finita visto che in contemporanea a questo atteggiamento da bulli di periferia, la selezione delle api la continuiamo a fare sulle performance che si ottengono, il più delle volte, spingendo sulla produzione di covata e più covata vuol dire più varroa.
Prima ho ricordato che la pressione selettiva dell’uomo, anche se su un carattere apparentemente positivo come quello della tolleranza alla varroa, è, comunque, pericolosa (seppure da sperimentare).
E le ragioni non sono difficili da comprendere.
Anche in questo caso, non è detto che così facendo non combiniamo qualche pasticcio. Ad esempio, cito un caso concreto, ci potremmo portare dietro un carattere negativo come la suscettibilità ad altre malattie.
Dico ciò non a caso, visto che la recrudescenza di peste europea sembra proprio derivare da una concomitante tolleranza alla varroa (e forse anche da incroci spericolati, ma lasciamo perdere) da parte di queste colonie. Mi piace ricordare che tutti i libri di apicoltura di qualche anno fa ricordano come l’ape di razza Ligustica fosse resistente alla peste europea tanto che era consigliato, come rimedio per recuperare areali in cui vi erano frequenti epidemie del parassita, la sostituzione delle regine locali con quelle di razza Ligustica.

La voglia di voler provare a fare qualcosa nel campo della selezione di api tolleranti la varroa me l’hanno fornita due stimoli.
Il primo? La constatazione che nessun ricercatore al mondo si sta impegnato più per la scoperta di nuove molecole attive. La prova? Tutto ciò che bolle in pentola per il futuro, sembrano essere vecchie molecole da distribuire con nuovi metodi di somministrazione, ovvero nulla. Se nessuno studia nuove molecole, allora, vuol dire che quando quelle a nostra disposizione saranno inefficaci (il che vuol dire scendere sotto il 70% di efficacia!) non sapremo più a che santo votarci.
Il secondo, invece, viene dalla lettura di un’interessante ricerca di Ingemar Fries, Anton Imdorf e Peter Rosenkranz: “Survival of mite infested (Varroa destructor) honey bee (Apis mellifera) colonies in a Nordic climate (www.apidologie.org/articles/apido/pdf/2006/05/m6039.pdf).
Nello studio, che voleva analizzare la possibilità di sopravvivenza delle colonie di api infestate  da varroa se non trattate con acaricidi, i ricercatori hanno isolato, a Gotland, un’isola del Mar Baltico, 150 alveari preventivamente infestati con un numero noto di varroe (da 36 a 89).
Delle 150 colonie invernate nel 1999 sono sopravvissute, sei anni senza alcun trattamento, 13 famiglie di cui 5 colonie originarie; 1 sciame del 2003; 3 del 2004 e 4 del 2005.
Questo vuol dire che poco più del 3% delle colonie portate sull’isola di Gotland avevano il carattere della tolleranza alla varroa. Se, poi, sia possibile trasferire il risultato ottenuto a Gotland a tutte le colonie di tutti gli apicoltori (dove si dovrebbero nascondere il 3% di colonie potenzialmente resistenti) non è facile da capire, sia perché è diverso il clima, sia perché non è conosciuta la razza di api utilizzata per l’esperimento. Al di là di ciò, la ricerca è interessante in quanto simula quello che potrebbe accadere se gli apicoltori smettessero di eseguire trattamenti.
Nessun pericolo per la sopravvivenza dell’ape, quindi, che, seppur lentamente, dopo una forte mortalità, riconquisterebbe gli spazi lasciati liberi dalla morte delle famiglie sensibili. Semmai, sarebbe la fine, per alcuni anni, dell’apicoltura.
Tradotto vorrebbe dire: azzeramento del reddito per gli apicoltori e miele relegato nella nicchia di prodotti di super lusso, probabilmente assieme a cibi quali il tartufo.
Comunque, in una successiva ricerca Ingmar Fries, stavolta condotta assieme a Riccardo Bommarco (www. springerlink.com/content/04qw122212704862/fulltext.pdf), ha scoperto che l’adattamento ospite-parassita, osservato nel precedente lavoro, era da ascrivere al comportamento delle api e non della varroa. Gli studiosi presero 20 regine figlie delle “resistenti”, le fecero fecondare all’interno della stessa popolazione (che Fries chiama colonie Bond, da “007, vivi e lascia morire”) e le misero a confronto con 20 regine acquistate dal mercato. Tutte queste regine furono assegnate ad altrettanti pacchi d’ape, la metà prodotti da colonie normali (dunque, infestate con acari qualsiasi), il rimanente da colonie Bond e, quindi, contenenti acari di colonie sopravvissute sei anni, senza trattamenti.
A fine stagione, il tasso d’infestazione delle colonie con regine del mercato era il doppio rispetto a quello delle colonie con regine Bond (1% contro 4,2%), a prescindere dal tipo di acaro che parassitava le api.
La ricerca ha anche dimostrato che le regine tolleranti producono meno covata - sia di operaia sia di fuco (per fortuna si riflette poco nella popolazione di api in quanto, probabilmente, hanno una vita leggermente più lunga) - e spingono le varroe a vivere maggiormente sugli adulti piuttosto che nella covata.
La ricerca non è riuscita a spiegare il perché, ma ciò potrebbe essere in relazione al comportamento igienico evidenziato da Marla Spivak e Gary Reuter in “Varroa destructor infestation in untreated honey bee colonies selected for hygienic behavior (Infestazione di Varroa destructor in colonie non trattate di api selezionate per il comportamento igienico), che si può trovare al link: www.culturaapicola.com.ar/apuntes/sanidad/varroa/Varroa_destructor_infectacion_colonias_seleccionadas.pdf.
Allora, mi è venuto da pensare che anche in Italia è possibile cominciare a lavorare sull’ipotesi di allevare delle api che mostrino una qualche resistenza alla varroa. Personalmente, ho intrapreso una modalità piuttosto laboriosa, ovvero controllare la progressione del tasso di infestazione degli adulti delle colonie (circa 700), fintanto che non supera il 3% sugli adulti (vuol dire circa il 10% totale quando è presente anche la covata), raggiunto il quale asporto la covata ed eseguo il trattamento acaricida (con molecole autorizzate nel biologico).
Il sistema è sì laborioso ma è più simile a quello che capiterebbe se la selezione la facesse la natura.
La differenza? La natura non permetterebbe alla colonia sensibile di sopravvivere. A fine stagione ci si dovrebbe trovare (se la ricerca di Fries et al. è valida anche in Italia) con circa il 3% di alveari su cui non è necessario eseguire  il trattamento acaricida (nel mio caso ne ho trovate meno).
Questi alveari andranno a formare il nucleo iniziale di allevamento di regine che si feconderanno all’interno della popolazione “resistente” in ambiente confinato, quale una stazione di fecondazione.
Naturalmente, è possibile effettuare anche un’inseminazione strumentale per la quale, però, la scelta del maschio è a giudizio dell’operatore e non della casualità ambientale. Se le famiglie “resistenti” a disposizione sono pochissime, allora l’inseminazione strumentale è obbligatoria; in caso contrario, la fecondazione naturale dà la possibilità di produrre un gran numero di regine che andranno a rimpiazzare quelle eliminate dal piano di selezione l’anno precedente.
La stagione successiva, una volta sostituite le regine suscettibili con le figlie delle resistenti, si ricomincerà il lavoro di monitoraggio con il quale sarà possibile valutare quanto la resistenza sia opera del genoma dell’ape regina selezionata, quanto dell’ambiente.
Spero che queste 4 righe sulla selezione di api resistenti alla varroa, possano interessare un buon numero di apicoltori perché una selezione delle regine eseguita su geni recessivi quando si sa che una ventina di fuchi, che percorrono decine e decine di chilometri, le vanno a fecondare, servirebbe davvero a poco.
 
 
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© Apitalia - Tutti i diritti riservati
Scritto in data 22/02/2012 da Marco Valentini
www.bioapi.it
 
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