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Relazione tra variabilità genetica e aspettativa di vita in Apis mellifera
 
di Luca Tufano
 
L’adattamento di una popolazione di api a un dato ambiente è il frutto di un equilibrio dinamico tra api e ambiente che tende a selezionare gli insetti in una certa direzione, favorendo la costituzione di un patrimonio genetico competitivo e più capace di dare delle risposte alle sollecitazioni e agli stimoli (positivi e negativi) esterni. Ma anche tanto altro. Scopriamolo
 
Iniziando la mia collaborazione con Apitalia1 ho trattato un tema che considero centrale sia rispetto alle condizioni di salute degli alveari, e alle capacità adattative delle famiglie d’api, sia rispetto alle condizioni di salute del Pianeta nel suo insieme. Scrivevo, circa un anno fa, di tutela e valorizzazione delle sottospecie autoctone di Apis mellifera e questo significa, tradotto dal gergo apistico, tutela e valorizzazione della biodiversità. Poiché l’ape non è un insetto come tanti altri, ma ha, in quanto impollinatore, un ruolo fondamentale nella conservazione della «catena alimentare» e quindi del delicato equilibrio della biodiversità delle specie animali e vegetali, sarebbe un madornale paradosso che proprio l’ape subisse un impoverimento genetico, o meglio un’erosione genetica, capace di eliminare quasi sostanzialmente le differenze sottospecifiche delle api domestiche. Questo madornale paradosso, tuttavia, non è un’ipotesi ma qualcosa in atto da decenni, una tendenza che si è particolarmente aggravata per effetto della commercializzazione sempre più diffusa di nuclei, famiglie e regine dovuta a una sempre maggiore richiesta da parte delle aziende apistiche,  costrette a ripopolamenti a seguito delle morìe ben note. A un commercio molto ampio di api non si è accompagnata una tutela rigorosa delle sottospecie di Apis mellifera né da parte delle Istituzioni né da parte delle associazioni di apicoltori (tranne qualche lodevole eccezione, più di singoli che di gruppo), e alla fine sia per alcuni discutibili indirizzi di selezione (vedasi l’utilizzo di superibridi come Buckfast o di ibridi «confezionati» alla buona e spacciati in modo fraudolento per le razze che non sono), sia per il fatto che molti apicoltori, arbitrariamente, richiedono api che non sono autoctone rispetto alle proprie aree di allevamento, si è prodotta una generalizzata e «selvaggia» ibridazione che, nella migliore delle ipotesi, ha portato all’annacquamento e alla marginalizzazione degli ecotipi locali se non, nei casi più gravi (e tutt’altro che rari), alla loro totale scomparsa. Tutto ciò non è privo di effetti sulle prestazioni e sulla fitness (l’essere adatto, l’appropriatezza, l’idoneità) delle api, nonché sulle loro condizioni generali di salute. Non si tratta di portare avanti una «difesa della razza» priva di applicazioni pratiche, quanto anacronistica, ma al contrario di salvaguardare qualcosa di straordinariamente interessante e utile da un punto di vista anche pragmatico e operativo. Né tanto meno è qualcosa di «ideologico» o che vuole nascondere velleità commerciali. Di contro, ribadisco ancora una volta che la tutela dell’ape italiana è un tassello fondamentale - ma non l’unico - nel più ampio mosaico della tutela e valorizzazione degli ecotipi locali e delle sottospecie autoctone, dunque della biodiversità. Non è concepibile una tutela della ligustica che implichi una diffusione generalizzata di questa pur validissima e forse ottimale razza a danno di sottospecie locali, così come avvenuto in alcuni areali, si pensi alla Sicilia, dove l’ape sicula ha rischiato l’estinzione per effetto di massicce importazioni di ligustica. Si potrebbero citare zone d’Italia in cui è autoctona (si badi bene, autoctona, non importata a proprio talento) la carnica (Veneto e Friuli) o la mellifera mellifera (Liguria di estremo ponente); ed è evidente che in queste particolari regioni sarebbe più corretto parlare di tutela delle razze e degli ecotipi locali, poiché parlare qui di ligustica significherebbe applicare le stesse logiche perverse di chi pretende di soppiantare la ligustica nel resto d’Italia, importandovi l’esotico. Non intendo qui addentrarmi in argomenti relativi all’ibridazione, già affrontati in numeri precedenti2, ma chiarire meglio le mie intenzioni. In definitiva, desidero portare alla conoscenza del lettore alcuni dati che testimoniano quanto la variabilità genetica non sia una questione astratta, ma straordinariamente concreta.
Apis mellifera ha avuto un’ampissima diffusione geografica che ha prodotto una differenziazione delle api in numerose popolazioni sotto specifiche, individuate come razze e, all’interno di queste, si sono distinti gli ecotipi. Razze ed ecotipi sono il prodotto di un processo naturale di adattamento a territori e ambienti diversi.
Gli ecotipi sono popolazioni specializzate, nelle quali le strategie di sopravvivenza sono la conseguenza dell’adattamento a un dato ambiente, ai suoi ritmi stagionali, ai suoi raccolti, alle variazioni climatiche e produzioni botaniche. L’adattamento di una popolazione di api a un dato ambiente è il frutto di un equilibrio dinamico tra api e ambiente che tende a selezionare gli insetti in una certa direzione, favorendo la costituzione di un patrimonio genetico competitivo e più capace di dare delle risposte alle sollecitazioni e agli stimoli (positivi e negativi) esterni. Benché sulla base di indagini morfometriche sia arduo individuare gli ecotipi locali all’interno di una medesima sottospecie, tuttavia diverse ricerche inducono a ritenere che esista una notevole variabilità genetica all’interno di una stessa razza e che tale variabilità offra delle chance in più di sopravvivenza alle api autoctone. Negli studi di Louveaux (1966) vennero posti a confronto due ceppi locali di ape nera (Apis mellifera mellifera), indistinguibili biometricamente ma originarie di due località della Francia ben differenti: la prima settentrionale e la seconda meridionale. Il risultato più evidente di queste indagini fu che le api, cambiando ambiente, mantenevano i comportamenti ottimali nel luogo d’origine ma poco performanti nel nuovo territorio: le api settentrionali, spostate nel meridione, tendevano a restringere la covata in estate, nonostante in quelle regioni il flusso nettarifero fosse estivo e non primaverile, così come nel luogo d’origine. Allo stesso modo, le api meridionali non seppero sfruttare i precoci raccolti primaverili del nord. La popolazione introdotta è, dunque, risultata meno produttiva della locale. E qui si parla di api, lo sottolineo di nuovo, tutte appartenenti alla stessa e tuttavia differenziate in quanti appartenenti a differenti ecotipi. Lo stesso ragionamento, si può applicare alla nostra ligustica, consapevoli che di certo l’ecotipo autoctono della Basilicata avrà caratteristiche genetiche differenti rispetto a quello della Lombardia o del Piemonte. Quindi, tornando al commercio di api, forse qualche riflessione anche in questo caso, tenendo in considerazione non solo le produzioni ma anche l’aspettativa di vita e la risposta ai patogeni, andrebbe fatta… Altri studi (Wille & Vecchi, 1985) hanno rilevato una sostanziale dipendenza, nell’evoluzione delle api, dai fattori ambientali: «Gli andamenti medi del ritmo di deposizione di più colonie nel medesimo luogo, determinati in anni successivi, si discostano poco uno dall’altro e sono sovrapponibili a quelli di altre colonie situate in territori simili per macroclima e flora apistica».
Una più recente ricerca internazionale3 ha voluto stimare l’importanza delle interazioni genotipo-ambiente sulla vitalità e le prestazioni delle api, nonché sulla perdita delle colonie.
Complessivamente sono state coinvolte 612 colonie di diverse origini genetiche, comprese tra le api europee e testate in 21 sedi dislocate in 11 paesi. I ceppi genetici appartenevano a A. m. carnica; A. m. ligustica; A. m. macedonica; A. m. mellifera, A. m. sicula. In ciascuna località, il ceppo di api “autoctono” è stato testato insieme ad almeno due ceppi «esotici», con un numero minimo di colonie autoctone, inizialmente stimato sulle 10 famiglie. Il protocollo scientifico di prova comune ha tenuto conto della popolazione di api in primavera, in estate, in autunno; della produzione di miele e di polline; della tendenza a sciamare, dell’aggressività; del comportamento igienico; dei livelli di infestazioni di Varroa destructor; nonché delle infezioni di Nosema spp. e virus. La raccolta dei dati è stata eseguita secondo metodi uniformi e sono stati applicati i medesimi trattamenti anti-varroa. Alla fine dell’esperimento sono risultate ancora vive il 16% delle colonie iniziali (in verità un indice molto basso) e analizzando i dati nel loro complesso è risultato che le colonie autoctone sono sopravvissute mediamente 80 giorni in più rispetto alle colonie non locali. Per tutti i caratteri studiati si è evidenziata una grande variabilità tra i genotipi e tra gli apiari, a dimostrazione della ricchezza che caratterizza le api europee. Ma anche del forte effetto dell’ambiente sullo sviluppo. Nel caso delle malattie considerate nello studio, l’ambiente è risultato rilevante ma più ancora l’origine genetica delle famiglie. In particolare, l’analisi approfondita di un apiario con ben 5 origini genetiche differenti ha messo in risalto una minore suscettibilità ai patogeni delle colonie di origine locale. Le colonie autoctone, complessivamente e mediamente, si sviluppavano maggiormente, raccoglievano più miele ed erano meno aggressive. L’esperimento ha mostrato che c’è una grande variabilità genetica tra le api europee che, se conservata, comporta una maggiore adattabilità che può costituire per l’apicoltura una garanzia di sopravvivenza delle api, specialmente ponendo lo sguardo a possibili, complessi e difficili, scenari futuri. Scenari che un appiattimento genetico non sarebbe in grado di affrontare, in quanto privo di quella «plasticità» comportamentale che è adattabilità a differenti condizioni ambientali. Qualsiasi piano di selezione artificiale tiene conto, necessariamente, della resistenza verso un solo patogeno e attorno a essa lavora, selezionando insieme alle caratteristiche richieste anche molte cose che non conosciamo, inducendo con ciò a una riduzione della variabilità genetica che è la vera forza di una colonia d’api, poiché pone un qualsivoglia patogeno di fronte a un ambiente (l’ospite ape) variabile e per questa ragione ostile: non consente al patogeno l’adattamento ottimale proprio ad ambiente più “uniformizzato”, capace perciò di aumentarne la virulenza. La selezione naturale che determina la speciazione dipende dai livelli di suscettibilità verso un patogeno o altro elemento esterno, livelli all’interno dei quali vince il tipo geneticamente meno frequente perché è quello verso cui il patogeno sarà meno adattabile, così come questo tipo meno frequente potrà, a sua volta, diventare il più frequente e, di riflesso, il più capace di suscitare la virulenza del patogeno. Tuttavia, in questo «gioco» di alternanza, i patogeni incontrano delle barriere che ne arrestano l’avanzata vittoriosa, fino al collasso della colonia. Le infezioni incontrano degli ostacoli e soprattutto non riescono ad affermarsi tutti contemporaneamente con gli stessi risultati negativi, mentre se ci trovassimo di fronte a ceppi geneticamente omologati, allora i patogeni avrebbero gioco facile nell’adattarsi alle condizioni uniforme dell’ospite, peraltro pressoché identiche in tutte le famiglie. Ciò dimostra che con una perdita della variabilità genetica, si selezionano e specializzano i patogeni e non le api, che al contrario sono alla deriva, senza più quelle risorse che invece la selezione naturale determina. Ecco una delle ragioni per cui negli insetti eusociali, proprio per favorire la variabilità genetica, è presente un’accentuata poliandria. Un’ipotesi utilizzata per spiegare la poliandria è quella parassita-patogeno (PPH), che parte dal presupposto che nessun singolo genotipo dell’ospite (l’ape) può risultare resistente a tutti gli eventuali agenti patogeni, ragion per cui si evidenzia una variazione genotipica funzionale alla resistenza alle malattie delle operaie, impedendo così il catastrofico collasso di una colonia a seguito dell’infezione prodotta da un dato patogeno (Sherman et al., 1988; Shykoff e Schmid-Hempel, 1991; Schmid-Hempel, 1994; Brown e Schmid-Hempel, 2003; Hughes e Boosma, 2004; van Baalen e Beekman, 2006 e Bourgeois et al., 2012). Prove a sostegno dell’ipotesi PPH provengono da studi che mostrano come colonie geneticamente differenziate abbiano una minore incidenza delle malattie. Rispetto alle colonie geneticamente meno uniformi, infatti, le colonie geneticamente differenziate al proprio interno presentano una minore incidenza di malattie come Covata calcificata, Peste americana, Peste europea e Covata a sacco (Tarpy e Seeley, 2006 Seeley e Tarpy, 2007). Variazioni di resistenza ai patogeni sono evidenti sia tra le patrilinee (figlie di diversi maschi che si sono accoppiati con la regina) all’interno di una stessa colonia, sia tra colonie differenti (Hughes e Broomsma, 2004). Un presupposto fondamentale della PPH è che la suscettibilità/resistenza al genotipo di un singolo agente patogeno tra operaie matri/patrilinee e la virulenza di ciascun genotipo patogeno sia variabile tra i singoli matri/patrilinee (Sherman et al., 1988; Kraus e Pagina, 1998; Sherman et al., 1998). Se una regina si accoppia con diversi maschi, aumenta la possibilità che almeno una progenie della colonia sopravviva a una particolare infezione.
Una recentissima ricerca4 si è spinta ancora oltre, indagando l’interazione genotipica tra ospite e patogeno e l’influenza di questa interazione sullo sviluppo della malattia. Anche questi dati sono «a favore» della variabilità genetica in quanto la virulenza dell’agente patogeno della covata calcificata, il fungo Ascosphaera apis, varia ed è influenzato dalla variabilità del genotipo dell’ape ospitante. Le larve infettate artificialmente nell’esperimento, in virtù della propria variabilità genetica, venivano infettate da un determinato ceppo di Ascosphaera apis ma limitavano lo sviluppo di un altro. Le conseguenze di questa speculazione sono profonde e consentono di capire perché gli effetti di patologie come la covata calcificata sono raramente letali, mentre se fossimo in presenza di condizioni ottimali di adattabilità del patogeno questo sarebbe teoricamente possibile5. Pertanto, la speciazione e i comportamenti che la determinano (tra cui la poliandria) sono delle autentiche «forze» naturali che l’apicoltore dovrebbe non solo conoscere ma non assecondare, o perlomeno non negare o ostacolare. E, ricordiamolo ancora una volta, esse sono alla base della costituzione delle sottospecie e degli ecotipi, autentico tesoro di biodiversità e garanzia di sopravvivenza della specie.
 
1. NN° settembre e ottobre 2013, Considerazioni sulla salvaguardia dell’Ape italiana.

2. Vedi Apitalia settembre e ottobre 2013.

3. A europe-wide experiment for assessing the impact of genotype-environment interactions on the vitality and performance of honey bee colonies: experimental design and trait evaluation di Costa et al. 2012 da Journal of Apicultural Research.

4. «La variabilità della virulenza tra ceppi isolati di Ascosphaera apis: verifica dell’ipotesi parassita-patogeno (PPH) rispetto all’evoluzione della poliandria negli insetti sociali» di G.M. Lee, P.A. McGee e B.P. Oldroyd. Naturwissenschaften (2013). Per la traduzione ridotta in italiano vedi: http://archiviomilani.wordpress.com

5. A tutto ciò si deve aggiungere la nozione di immunità trans-generazionale. In Trans-generational immune priming in honeybees - Immunità trans generazionale nelle api Conferenza tedesca di ricerche apistiche Wurzburg marzo 2013 di Javier Hernández-López, W. Schuehly, U. Riessberger-Gallé, K. Crailsheim (Graz) si è mostrato che l‘esperienza immunitaria della madre, acquisita durante l’esposizione ai patogeni, viene trasferita alla progenie allo scopo di aumentarne la resistenza alle infezioni. Tale immunità è chiamata immunità trans-generazionale (TI). La TI è stata verificata somministrando dosi di Paenibacillus larvae, l’agente patogeno di Peste americana, alle regine e si è osservato che le larve nate da tali regine immunostimalate, presentavano un aumento della resistenza al patogeno. Ciò naturalmente aprirebbe ad alcune considerazioni di ordine pratico, relative ad esempio alla sostituzione delle regine, che ove fossero presenti segnali di immunità rispetto a determinati patogeni sarebbe piuttosto sconsigliabile nei termini che sono oggi noti (due anni per sostituzione). E in alcuni ecotipi questa immunità trans-generazionale potrebbe logicamente non essere rara rispetto ad un dato patogeno. Gli elementi raccolti mostrano l’esistenza di fattori di immunità trans-generazionale nelle api rivelando effetti dipendenti dall’esperienza della regina sulla immunità della covata deposta .Questo può risultare di enorme importanza per la salute degli alveari dal punto di vista pratico . un significativo aumento della salute a livello individuale e di alveare. Dimostrata in invertebrati diversi dalle api , TI non è ancora pienamente compresa in termini di intensità dei meccanismi molecolari . Si è perciò voluto provare a immuno-stimolare api regine iniettando loro Paenibacillus larve,l’agente della peste americana. La progenie delle regine infettate è stata allevata artificialmente ed esposta a carichi variabili del patogeno verificandone la successiva mortalità . E’ stato possibile misurare un forte aumento della resistenza al patogeno nelle progenie delle regine immuno stimolate . Gli elementi raccolti mostrano l’esistenza di fattori di immunità trans-generazionale nelle api rivelando effetti dipendenti dall’esperienza della regina sulla immunità della covata deposta .Questo può risultare di enorme importanza per la salute degli alveari dal punto di vista pratico.
 
© Apitalia - Tutti i diritti riservati
Scritto in data 13/10/2014 da Luca Tufano
 
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