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 Pratica
I nuovi nuclei nell’attività apistica
 
di Luca Tufano
 
In termini di pratica apistica è consigliabile, specialmente per le rimonte interne, formare sciami (nuclei) di non ridottissime dimensioni, ma di almeno sette (7) telaini. Come? Prelevando un solo telaino di covata per famiglia di origine, con un sistema che potremmo chiamare “a imbuto”. Ciò comporta un indebolimento, non eccessivo, della famiglia di origine che manterrà ancora buone dimensioni (dando per scontato che se seguiamo questa logica la famiglia d’origine non potrà essere sottosviluppata o troppo piccola) e allo stesso tempo la formazione di un nuovo nucleo con una buona presenza di covata, con le ricadute positive che questa comporta. Naturalmente, un certo bilanciamento va considerato anche per… Volete saperne di più? Basta leggere, attentamente, lo speciale
 
Torniamo ancora una volta - repetita iuvant - a parlare di tecniche apistiche in stretta correlazione con la biologia dell’alveare. Prima di entrare nel vivo dell’argomento, ci venga consentita una premessa, resasi opportuna dopo diverse (quanto previste), ingiustificate, e spesso malevole, critiche verso nostri articoli precedenti, relativi al regime biologico e/o al blocco di covata. Affrontando questi temi, non abbiamo voluto semplicisticamente “rottamare” tecniche largamente diffuse (e accettate quasi ovunque in modo acritico e dogmatico), ma piuttosto metterne in luce le criticità e soprattutto far osservare come la manipolazione di una famiglia e dei favi, nonché i condizionamenti artificiali della deposizione, in particolare quando non coincidono con i bio-ritmi naturali delle api (diapause, rallentamenti della deposizione per siccità o carestia, ecc), possano procurare alle colonie dei danni molto profondi e tanto più seri in considerazione del grave carico di patogeni (maggiore o minore, a seconda dei casi ma sempre elevatissimo), il quale necessità di una risposta immunitaria che si fonda sull’apporto nutrizionale (specialmente pollinico - proteico). Ma tale apporto nutrizionale, come vedremo anche in questa occasione, è condizionato dalla presenza di covata (oltreché di bottinatrici), e quindi quando l’apicoltore, deliberatamente, e per scelte aziendali, decide per un’asportazione di covata o un ingabbiamento della regina, deve rendersi conto che tutto ciò implica una minore importazione di polline (proteine), fondamentale al buon funzionamento del sistema immunitario dell’ape (Cfr. “Influence of Pollen Nutrition on Honey Bee Health: Do Pollen Quality and Diversity Matter” Di Pasquale et al., 2013 - Ricerca pubblicata nel gruppo Facebook Patologia apistica). Volevamo semplicemente sottolineare - e onestamente ci pareva un’ovvietà - che quanto facciamo in apicoltura deve partire da una conoscenza (implica autentica professionalità e non dilettantismo) della biologia dell’alveare, mentre, purtroppo, nella pratica vi è una noncuranza totale verso tutto ciò. L’atteggiamento ci pareva e ci pare tanto più grave in chi opera in regime biologico e non si rende conto che il valore di questa “etichetta”, affinché non sia un mero “specchietto commerciale per allodole”, non può basarsi solo sull’utilizzo di principi attivi derivati da molecole organiche, ma deve riferirsi in modo molto più profondo alla biologia dell’alveare, alla sua integrità e integralità biologica e funzionale. Altrimenti, qualcuno dovrebbe spiegare a che cosa porta tutto ciò, e che senso ha farsi un vanto di utilizzare molecole organiche (peraltro tossiche per le api anche più di quelle chimiche, si pensi al timolo) e poi associare questi principi attivi a pratiche bio-meccaniche di manipolazione della covata e dei favi che sono in contrasto con il ciclo naturale delle api. In attesa che qualcuno ci risponda su quella che a noi pare, a rigore di logica, una contraddizione, ci proponiamo di esporre alcuni concetti nella medesima direzione, già indicata in altri articoli.
Una delle pratiche più diffuse, è la produzione di sciami (nuclei) artificiali. Si tratta di una pratica che non interessa, come noto, solo gli allevatori che commerciano in sciami, ma si tratta di qualcosa che anche l’hobbista, o per sopperire alle perdite avute in inverno o per rimonte interne, mette in atto. Sui manuali di apicoltura, così come nei corsi, sono presentati diversi metodi, ma queste tecniche vengono, quasi ovunque, esposte con un’attenzione rivolta quasi esclusivamente agli aspetti meccanici e pratici (spostare questo qua, mettere quest’altro là, ecc). Raramente questi lavori sono messi in relazione con la biologia dell’alveare e si parla molto di lavoro dell’apicoltore ma mai di quello delle api, e delle conseguenze che queste pratiche apistiche possono avere sul lavoro di bottinatrici o nutrici. Anche per tali ragioni, si legge di metodi molto differenti, che vanno dal prelievo per arnia di pochi telaini o di uno solo, fino a divisioni e prelievi di metà di una famiglia. Spesso la “gola” dell’apicoltore è orientata al metodo che numericamente - e quindi solo rispetto alle dimensioni dell’apiario per numero di alveari - consente, solo apparentemente, di migliorare la propria condizione. Si propenderà nella maggior parte dei casi per il metodo che da 8 famiglie porta a 16, o quasi, e non so quanti preferirebbero quello che da 8 porta a 9… Tuttavia, l’aumento della quantità di numero di famiglie ha una fragilità e criticità qualitativa che dipende da come e quanto le famiglie sono state divise. Paradossalmente, l’apicoltore pretende di crescere in termini quantitativi, moltiplicandolo il numero di famiglie (che vengono intese, in barba a tutto l’amore per le api sbandierato qua e là ad ogni occasione, come mere unità produttive), anche se non tiene conto di un principio importante, dimostrato da diverse ricerche scientifiche, secondo le quali le api fanno meglio tutto quando si trovano in famiglie più popolose. Dunque, sarebbe meglio favorire il dato quantitativo (che è in questo caso qualità, resa e capacità funzionali della famiglia) interno ad un alveare, piuttosto che moltiplicare il numero delle famiglie, ritrovandosi, poi, con nuclei caratterizzati da poca covata (ergo, bassi livelli di feromone corrispondente e ciò che ne consegue): poche api, assenza o quasi di specifiche sotto-caste, e allora funzioni a esse collegate.
Nel caso degli insetti eusociali, vi appartengono anche le api, diverse ricerche scientifiche hanno dimostrato come vi sia una relazione tra specifiche funzioni, ad esempio tutto ciò che ha a che fare con il foraggiamento delle colonie e dimensioni della famiglia, con performance ottimali, raggiunte solo in presenza di gruppi numerosi. Nel caso specifico delle api, i gruppi più numerosi possono raccogliere maggiori informazioni circa le fonti nettarifere, disponendo di più api preposte all’individuazione delle aree di bottinamento. Vi è anche una relazione positiva tra le dimensioni della colonia e la capacità di comunicazione attraverso la danza. Poiché c’è una relazione tra la qualità della fonte nutrizionale (nettarifera e/o pollinifera) e le caratteristiche e il tempo di esecuzione della danza (Seeley & Visscher, 1988) il complesso sistema di comunicazione attraverso le danze non solo indica la fonte e le sue qualità, ma consente un confronto tra le diverse informazioni e un loro continuo aggiornamento che sarà tanto più rapido ed efficace, quante più api saranno interessate al ruolo di esploratrici (Seeley, 1986; Schmickl & Crailsheim, 2004). Potremmo aspettarci che in grandi colonie vi siano maggiori problemi collegati alle difficoltà di coordinamento tra individui, con interferenze e sovrapposizione di informazioni (Pacala et al., 1996); in realtà è stato appurato che sono proprie le colonie molto popolose a presentare queste, richieste, capacità di coordinamento, con un volume di informazioni che viene diffuso più ampiamente (Naug, 2009). Inoltre, con la crescita della colonia, le api disporranno di informazioni sempre maggiori da poter confrontare e integrare tra loro, e saranno capaci di rintracciare più velocemente le risorse nutrizionali (Naug & Wenzel, 2006) così come di reclutare altri membri della colonia nel reperimento delle informazioni (Johnson & Hubbel, 1987). Siamo, dunque, di fronte a una competizione virtuosa che nei gruppi più numerosi implica maggiori e più aggiornate informazioni circa il pascolo, con migliori capacità, complessive, di bottinamento della famiglia: il lavoro delle esploratrici è a vantaggio delle bottinatrici. Beekman et al. (2004) hanno dimostrato che le api utilizzano sistemi di comunicazione per selezionare le fonti nutrizionali migliori e naturalmente famiglie più numerose possiedono delle capacità maggiori di perlustrazione del territorio e di diffusione delle informazioni. Tuttavia, nel caso specifico delle api, è ancora poco studiata la relazione tra le dimensioni della colonia e le capacità di comunicazione/bottinamento. Una ricerca recente di cui qui rendiamo conto, intitolata “Bigger is better: honeybee colonies as distributed information-gathering systems”, di M. Donaldson-Matasci, G. De Grandi-Hoffman e A. Dornhaus, ha empiricamente valutano i benefici relativi alle dimensioni di una colonia, rispetto alle capacità di comunicazione (danza). Ha, inoltre, voluto verificare se le dimensioni della famiglia condizionano, come parrebbe logico, il numero di bottinatrici impiegate parallelamente alle esploratrici e attivate dal lavoro di queste ultime. In più, si è voluto verificare se il numero elevato di esploratrici generi un reclutamento positivo di altri individui, per la medesima funzione.
Gli autori della ricerca hanno sperimentalmente dimostrato tutto ciò. Come? Procedendo a una manipolazione intesa a condizionare le dimensioni delle famiglie e a una parallela misurazione delle capacità di bottinamento delle colonie di differenti dimensioni così ottenute. Le conclusioni cui sono arrivati evidenziano che non solo le famiglie più numerose hanno una capacità di comunicazione più efficace, ma che vi sono pure precise ragioni funzionali che legano il numero di api alle capacità di bottinamento. E’ risultato, come già in Goulson (2003), che le colonie più numerose riescono a rispondere meglio agli svantaggi determinati da fonti lontane, mentre famiglie più piccole risultano più svantaggiate dalla distanza. E ancora, le famiglie più popolose riescono ad avere una migliore raccolta anche in presenza di scarse risorse (vedi anche Beekman et al., 2004). C'è da aggiungere che il linguaggio della danza è più efficace quando è volto a segnalare risorse più lontane (Kirchner & Grasser, 1998; Dornhaus, 2002). Donaldson-Matasci et al. (2013) hanno, infatti, dimostrato, in questo studio, che vi era una maggiore importazione in colonie più grandi, nonostante la distanza con le risorse. E non finisce qui. E' stato osservato che in famiglie più grandi, oltre a una mole complessiva maggiore, vi è un’importazione pro-capite superiore, con carichi di nettare più alti per ciascuna bottinatrice di famiglie più grandi (vedi anche Eckert et al., 1994). Se ne deduce che le colonie più popolose godono di vantaggi sia rispetto alla rapidità di reperimento di risorse, sia rispetto alle capacità comunicative delle stesse, reclutamento ecc, anche in ragione di una maggiore competizione tra individui nella medesima funzione (vedi anche Roubik, 1980; Naug & Wenzel, 2006). Nel 2013, Donaldson-Matasci et al., da parte loro, hanno ancora dimostrato che le colonie più numerose presentano picchi di importazione già al primo giorno di esposizione di nuove fonti nettarifere, mentre famiglie più piccole reagiscono più lentamente. Ciò suggerisce che con danze direzionali più frequenti, le colonie più grandi sono in grado di individuare fonti nettarifere più rapidamente delle piccole colonie. Le conclusioni presentano numerosi vantaggi pratici per l’apicoltura, poiché le colonie più grandi possono approfittare efficacemente delle brevi “finestre” di disponibilità nettarifera e/o pollinifera, condizioni che nelle situazioni climatiche attuali sono sempre più frequenti, con fioriture brevi, limitate da fenomeni meteorologici fuori stagione. Che cosa potrebbe significare? Traduciamo letteralmente le considerazioni degli autori: «Il valore del sistema di comunicazione fondato sulla danza è massimo quando vi è una variazione rispetto alla disponibilità di risorse di elevata qualità, poiché implica una maggiore capacità di selezione e quindi uno sfruttamento delle fonti migliori dal punto di vista nutrizionale e più redditizie». Per questa ragione, si può asserire, proseguono gli autori, che «in tali ambienti, le colonie più grandi possono avere perfomance di bottinamento migliori perché le loro dimensioni consentono di scoprire nuove fonti in tempi rapidi e, inoltre, la maggiore capacità di comunicare alle consorelle la loro posizione, permette alle bottinatrici di concentrare il proprio lavoro su quelle migliori dal punto di vista nutrizionale». Un altro vantaggio che le colonie più popolose possono presentare, rispetto a famiglie più piccole, sta nella capacità di reclutamento di un massiccio numero di bottinatrici, altrimenti inattive nel caso di comunicazione inefficiente (vedi a tale proposito anche Johnson & Hubbel, 1987; Anderson, 2001; Heinrich, 2004). Tutte queste considerazioni - non nostre, ma dei ricercatori citati e da noi semplicemente esposte per il lettore - non sono di poco conto nella pratica apistica, anzi rivelano precisi vantaggi per le famiglie più popolose, e “l’impianto” ha una ricaduta positiva sia sulla raccolta del miele, in quanto prodotto finalizzato al commercio, sia sul bottinamento a favore della famiglia stessa.
Naturalmente, le migliori performance di famiglie più popolose rendono maggiormente perfomante l’attività di bottinamento di queste famiglie sia a discapito di alveari più piccoli del medesimo apiario, sia rispetto a famiglie di altri apiari limitrofi (spesso appartenenti a un altro o altri apicoltori). Il risultato? Una buona capacità di bottinamento dipende dal numero di api (e quindi dal numero di ciascuna sotto-casta) presenti nell’alveare. Come concludono Donaldson-Matasci et al., al termine della propria ricerca: «abbiamo dimostrato che le api di colonie più grandi sono bottinatrici più efficienti rispetto a quelle di famiglie più piccole, e ciò è dovuto alla loro migliore e più rapida capacità di comunicare tramite apposite danze la posizione di una fonte nutrizionale. Le migliori capacità di bottinamento sembrano essere il risultato di una capacità di individuazione più rapida delle fonti e di una migliore comunicazione delle stesse. Queste osservazioni, insieme, forniscono un’evidenza sperimentale (empirica) secondo la quale le grandi dimensioni delle famiglie d’api, associate alle migliori capacità di comunicazione delle fonti netterifere/pollinifere, rendono le colonie di insetti eusociali complessivamente più efficienti».
A complemento dello studio fin qui citato, vogliamo menzionare un’altra ricerca intitolata “Honey bee (Apis mellifera) workers live longer in small than in large colonies”, di O. Rueppell et al., in cui si è voluta verificare la relazione tra le dimensioni della colonia e la durata di vita delle unità costituenti (individui, api). Anche in questo studio, è stato verificato che le colonie di dimensioni maggiori riescono ad allevare più covata, a costruire più favi e manifestano maggiori capacità di bottinamento. Lo studio dimostra che nei grandi gruppi è migliore, e maggiore, l’aspettativa di vita collettiva, a dispetto, però, dell’aspettativa di vita individuale. La spiegazione? Risulta piuttosto logico considerando che le risorse proteiche (proteine di stoccaggio), ritenute indispensabili all’allevamento della covata, innalzano l’aspettativa di vita della singola ape.
Sono proprio le api più giovani, le nutrici, a utilizzare queste riserve proteiche per sintetizzare, insieme al polline proveniente dal bottinamento, la pappa per le operaie e la regine, esaurendo così in un dato tempo le scorte proteiche (vitellogenina, in primis) conservate nei corpi grassi. E allora? Allora, tanto più vi sarà covata da allevare, quanto prima vi sarà esaurimento delle proteine di stoccaggio, con relativa maturazione comportamentale (aumento dei livelli di ormone giovanile) e più rapido passaggio all’età di bottinatrice. L’esaurimento più veloce delle risorse individuali, tuttavia, è a vantaggio della collettività e significa migliori condizioni della colonia nel suo insieme. Come affermato da Rueppel et al. (ricerca citata), colonie di differenti dimensioni hanno crescite demografiche diverse e la minore longevità individuale viene “barattata” con la maggiore longevità collettiva. Non bisogna scordare, a tale proposito, che l’alveare è, e si comporta, come un super-organismo. L’aspetto non è certo trascurabile, visto che sotto questo profilo vi è un’analogia con gli organismi pluricellulari nei quali l’attività metabolica necessita del “sacrificio” delle cellule, del loro esaurimento, per il mantenimento della salute complessiva dell’organismo. Rueppel et al. (2009) hanno, sperimentalmente, dimostrato che le operaie introdotte in colonie di maggiori dimensioni avevano un’aspettativa di vita individuale minore rispetto a quelle introdotte in colonie più piccole. I ricercatori ipotizzano che la tendenza abbia anche una precisa ragione riproduttiva, in quanto nelle zone temperate il raggiungimento di determinate dimensioni comporta il successo riproduttivo (Winston, 1987) e queste dimensioni sono raggiunte con un allevamento maggiore della covata, costruzione dei favi, maggiore bottinamento. I grandi alveari sembrano investire più sulla crescita collettiva a discapito di quella individuale, mentre i piccoli alveari manifestano una tendenza più alla sopravvivenza individuale che alla crescita, massimizzando l’efficienza energetica e aumentando l’aspettativa di vita delle singole operaie (Houston et al., 1988). La quantità di covata influisce sul carico di lavoro di nutrici e bottinatrici (Eckert et al., 1994), le quali sottoposte a maggiore lavoro presentano una più rapida maturazione comportamentale. Colonie di elevate dimensioni necessitano di un elevato numero di bottinatrici che, come noto, sono le api più anziane, quelle in cui i livelli di proteine di stoccaggio (vitellogenina, principalmente) si sono ormai quasi esaurite del tutto e che necessitano dell’apporto delle nutrici per ottenere il proprio fabbisogno nutrizionale. Tutto ciò è in accordo con la conservazione della specie, per cui gli individui più esposti a maggiori rischi (predatori, incidenti vari, inquinamento ambientale), cioè le bottinatrici nel caso delle api, sono quelli che debbono essere meno forniti di elementi a elevato contenuto biologico. I dati ci suggeriscono alcune indicazioni sul piano pratico. Prendiamole in esame. Un alveare di piccole dimensioni, secondo il comportamento naturale del super-organismo, tenderà a privilegiare l’aspettativa di vita delle singole api in una prospettiva, come abbiamo già detto, di sopravvivenza individuale, e non avrà le dimensioni per uno sviluppo di crescita che sta a indicare maggiore importazione e aumento della covata. Si percepirà come poco performante e tenderà a non esaurire le proprie risorse e, come del resto abbiamo osservato anche precedentemente con la ricerca  di Donaldson-Matasci et al. (2013), è effettivamente meno competitivo e presenta numerose difficoltà nel superare condizioni ambientali sfavorevoli (lontananza di fonti nutrizionali, fioriture brevi, ecc).
Non abbiamo, naturalmente, voluto scrivere tutto ciò per semplice esposizione teorica, ma al fine di stabilire una logica differente, sulla base delle recenti scoperte biologiche, nella formazioni dei nuclei. Abbiamo detto che famiglie di ridotte dimensioni tendono a privilegiare la sopravvivenza individuale a discapito della crescita e inoltre abbiamo osservato come famiglie più grandi hanno migliori perfomance complessive, aspettativa di vita collettiva più lunga e maggiore e più efficace attività di esploratrici e bottinatrici. Curiosamente, tuttavia, nella pratica apistica sembrerebbe che vi sia la tendenza ad agire in contrasto con tutto ciò, ed effettivamente si assiste alla produzione di nuclei di ridotte o ridottissime dimensioni, che potrebbero incontrare le difficoltà di cui stiamo parlando. Non è raro, specialmente quando non favoriti dalla stagione e dalle fioriture (o gravati da patogeni anche asintomatici, tipo Nosema), assistere al crollo di nuclei su 4 o 5 telaini.
Il motivo? Una delle spiegazioni potrebbe trovarsi nelle ricerche citate, specialmente quando questi nuclei si trovano collocati in apiari composti anche da famiglie più competitive perché di maggiori dimensioni. Le difficoltà di bottinamento a cui possono andare incontro sono notevoli e talvolta, purtroppo, insormontabili. Per quanto una famiglia piccola possa aumentare la longevità individuale ed evitare la crescita, tuttavia non potrà mai spingersi oltre un certo limite e andrà fatalmente incontro a una morte dell’alveare, non essendo favorito il ricambio generazionale. Il ricambio generazionale tra api, per quanto possa essere ritardato, si considerino anche le condizioni invernali che sono tuttavia normali e contemplate nello sviluppo naturale dell’alveare, deve, comunque, avere luogo entro alcune settimane. La crescita, pertanto, è una condizione necessaria per la sopravvivenza della specie e della singola famiglia; e d’altra parte un’inefficiente attività di bottinamento comporta carenze nutrizionali gravi anche rispetto alla risposta immunitaria, specialmente per quel che riguarda l’importazione di polline (Di Pasquale et al., 2013). Per tale ragione, in condizioni di campo, le difficoltà di bottinamento e di crescita si traducono in deficit alimentari dannosi per la salute dell’alveare e morte della famiglia. Inoltre, un alveare con poca presenza di covata, sarà povero anche del feromone di covata che, insieme al feromone mandibolare della regina, garantisce la coesione sociale della colonia e le reazioni ghiandolari delle nutrici, come, tanto per portare un esempio, lo sviluppo delle ghiandole ipofaringee impiegate per produrre il cibo per le larve e la regina (pappa reale). Quindi se teoricamente una famiglia piccola, con poca covata e poche bottinatrici, può tentare di conservare le proprie risorse individuali a scapito della crescita, nella pratica ciò si traduce in una serie di squilibri funzionali e alimentari. Tali squilibri alimentari possono essere la causa di un indebolimento del sistema immunitario. Di contro, non solo la crescita, una buona crescita, necessita di famiglie popolose, con abbondante covata (e relativo feromone) e bottinatrici, le quali saranno più capaci di sfruttare le disponibilità del pascolo, ottimizzandone le risorse e usufruendo anche di fonti lontane o disponibili per breve tempo.
In termini di pratica apistica sarebbe allora consigliabile, specialmente per le rimonte interne, formare sciami (nuclei) di non ridottissime dimensioni, ma di almeno sette (7) telaini, prelevando un solo telaino di covata per famiglia di origine, con un sistema che potremmo chiamare “a imbuto”. Ciò comporta un indebolimento, non eccessivo, della famiglia di origine che manterrà ancora buone dimensioni (dando per scontato che se seguiamo questa logica la famiglia d’origine non potrà essere sottosviluppata o troppo piccola) e allo stesso tempo la formazione di un nuovo nucleo con una buona presenza di covata, con le ricadute positive che questa comporta. Naturalmente, un certo bilanciamento va considerato anche per quanto riguarda la presenza delle api e parliamo, pertanto, non di telaini nudi d’api ma popolati, in modo da garantire al nucleo un’importazione di nettare e polline, nonché un allevamento della covata e in linea di massima la presenza delle fondamentali sotto-caste.
 
 
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Scritto in data 20/06/2014 da Luca Tufano
 
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