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 L'opinione
Non è più un mondo per Api
 
di Luca Tufano
 
Come era prevedibile, l’intervento dell’apicoltore Crocini, “L’Italia è un Paese per Apicoltori?”, già pubblicato su www.apitalia.net sta innescando un notevole dibattito nel mondo apistico. Finalmente, salta fuori che l’Apicoltura necessita di un nuovo livello culturale - non solo apistico - e che per far crescere il livello produttivo c’è bisogno non di “outing”, oggi va tanto di moda in un paese, come il nostro, a forte connotazioni esterofile, ma di una riflessione profonda, pronta a far fronte e avviare le nuove esigenze produttive di tutto il comparto. I nostri lettori - Autori, Apicoltori, Istituzioni e Ricercatori scieglieranno i compagni di viaggio ideali per centrare l’obiettivo
 
Caro Direttore Editoriale,
ho letto la lettera da te ricevuta, in merito al tuo editoriale, e pubblicata del signor Crocini, collega apicoltore (che ringrazio per le parole di apprezzamento nei miei confronti), nella quale si esprimono molte considerazioni, in gran parte condivisibili, insieme a qualche punto che ritengo possa involontariamente generare dei malintesi.
Personalmente, rispondendo alla domanda che tu poni ai lettori di Apitalia, ritengo che l’Italia non sia un Paese per apicoltori, così come non è più un Paese per molte altre specie di mestieri, più o meno antichi ma onesti, delicati, complessi, che richiedono un alto livello di professionalità da parte degli operatori e di tutela da parte delle Istituzioni. Non siamo un Paese per apicoltori perché non siamo nemmeno un Paese per api a causa della drammatica situazione ecologica, dell’agricoltura intensiva, dell’antropizzazione, della cementificazione, ecc; ma in questo direi che siamo in buona compagnia, perché al di fuori di qualche Eden remoto e marginale, è il mondo intero a non essere più una terra ospitale per le api, anzi un inferno. Di ciò dobbiamo prendere atto realisticamente: «la situazione apistica globale è molto grave - forse non compromessa in modo irreversibile ma molto grave - e lo è anzitutto perché la diffusione delle patologie apistiche è in crescita e risulta incontrollata, mal gestita, ignorata nei suoi aspetti fondamentali e salienti dagli stessi apicoltori». E allora? Allora, il resto viene di conseguenza, ma una categoria che non ha consapevolezza di se stessa, che non provvede a una corretta auto formazione, che non pretende da se stessa elevata professionalità e preparazione, non può che essere oggetto di azioni antagoniste esterne e per questa ragione, come diceva il signor Crocini, risulta manipolabile. Difficilmente un apicoltore esperto, e professionalmente attrezzato e qualificato, potrà bersi una certa vulgata, propinata quale oppio per il popolo, perché la propria esperienza e le conoscenze acquisite lo metteranno in allerta appena qualcosa non torna. Così è non solo in apicoltura ma più in generale nella società, e senza ora addentrarci in considerazioni sociologiche o nella psicologia delle masse, è noto a tutti che sia influenzabile solo chi ha un’attitudine passiva, acritica, suggestionabile e ha rinunciato a ragionare con la propria testa e a vagliare ciò che viene proposto, chiedendosi se è vero, se serve, se è utile, se esiste, ecc. Mi è bastato occuparmi per tre mesi, insieme al suo fondatore e ispiratore Gianni Savorelli, dell’amministrazione di un gruppo presente su Facebook e denominato Patologia apistica, per avere ben presente come non solo gli apicoltori, ma spesso anche i tecnici apistici, sono totalmente ignari dei fondamentali della professione, e non solo si compiacciono di essere ignoranti, ma seminano falsità e spacciano per verità dei colossali errori. Pertanto, concordo con le critiche esposte da Crocini, anche se a queste aggiungerei che non si può più, considerata la grave situazione sanitaria delle api e tutti gli altri problemi apistici, solo ed esclusivamente, puntare il dito contro i cattivi nemici esterni e che la rinascita dell’apicoltura parta dal rifiorire della nostra professionalità apistica.
Dobbiamo ben guardarci anche dal nemico interno che siamo noi stessi: gli apicoltori con le proprie mancanze; le proprie carenze; la propria ignoranza; la chiusura di fronte alle innovazioni; il senso di appagamento e sazietà; la forza dell’individualismo e dell’abitudine che porta a guardare solo al proprio «orticello», infischiandosene del vicino, a ripercorrere sempre le stesse strade e a utilizzare gli stessi metodi, anche quando risulta palese che non funzionano più. Ciò che in apicoltura si poteva fare anche solo dieci anni fa in ambito sanitario, - pensiamo alla lotta alla Varroa destructor ad esempio - oggi non si può più fare o comporta negativi effetti indesiderati perché il quadro clinico generale si è aggravato e gli alveari, per effetto dell’aumento, della compresenza e della sinergia di patogeni vecchi e nuovi, autoctoni ed esotici, sono più sofferenti oggi che dieci anni fa e soffrono a dispetto di anni e anni di trattamenti sanitari (spesso improvvisati nei modi e nei tempi, «fai-da-te» o fantasiosi). Per non parlare di quel che ha prodotto in questi anni la vendita senza regole di sciami e regine, che è stata una delle risposte del settore alla morìa generalizzata di api, ma che ha portato a una diffusione maggiore di patologie, oltreché a una ibridazione selvaggia e incontrollata che ha quasi azzerato la biodiversità tra le sottospecie di Apis mellifera, con un’erosione genetica che ormai appare irreversibile e di cui le cause sono gli apicoltori e solo gli apicoltori, cioè coloro che dicono di amare le api, coloro che dicono di difendere le api, ma poi le «imbastardiscono» senza criterio, senza conoscerne la biologia e senza chiedersi che cosa ne sarà delle api quando non avremo più le sottospecie che ci hanno tramandato millenni di selezione naturale. Questo è solo un argomento citato come esempio, di cui ho avuto modo di parlare piuttosto diffusamente negli articoli dedicati alla salvaguardia dell’Ape ligustica e degli ecotipi locali (vedi Apitalia, settembre e ottobre 2013), ma se ne potrebbero citare molti altri.
Nella lettera di Crocini, a mio avviso, c’è, inoltre, qualche passaggio che può essere frainteso, dando adito a pregiudizi antiscientifici. In realtà, se ci sono scienziati prezzolati, ci sono anche molte ricerche indipendenti e autorevoli relative alle api e ai patogeni che le affliggono. La divulgazione di queste ricerche è fondamentale perché ci dice molto di più di quel che normalmente sappiamo e possiamo verificare sul campo e, se ben interpretati, numerosi dati e informazioni potrebbero consentirci di elaborare e adottare delle innovative e più efficaci strategie sanitarie.
Crocini parla del trattamento con acido citrico e lo fa come se fosse una «scoperta» di alcuni apicoltori, persuasi peraltro della sua assoluta efficacia, tanto da recarsi in sede europea a illustrare le proprie idee. In realtà, le cose non stanno affatto così e gli effetti della tossicità dell’acido citrico sulla Varroa destructor sono già stati già testati anni fa con risultati differenti. C’è una ricerca del 2001 del professor Milani (pubblicata su Apidologie n. 32 - anno 2001) che dimostra come l’acido citrico agisca sì in modo simile all’ossalico (quindi per contatto e non per trofallassi, e la questione dell’acidificazione dell’emolinfa è un’invenzione) ma presenti un’efficacia media inferiore rispetto all’ossalico, oltre a una grande variabilità di risultati nelle diverse somministrazioni, con esisti molto differenti dei test. Complessivamente, l’acido ossalico è risultato più tossico per Varroa e con risultati più coerenti e costanti tra un test e l’altro. Ciò permette, in sintesi, di avere un metodo valido per tutti e che, al di là delle necessarie e di certo non impeccabili approssimazioni di dosaggio e somministrazione, ha una sua coerenza rispetto allo sviluppo biologico dell’acaro. En passant, ci chiediamo, inoltre, se prima di andare a Bruxelles era stato tentato e proposto un confronto serio in Italia con i qualificati operatori del settore apistico: forse avrebbe giovato alla causa più generale della lotta alla Varroa, meglio di quanto non facciano iniziative isolate e non coordinate. Questo è un caso che rivela come gli apicoltori e gli scienziati siano troppo spesso, purtroppo, delle individualità separate le une dalle altre, senza scambio reciproco di informazioni, il che comporta molta confusione e perdita di risorse e tempo (e di api, ovviamente).
Avremo modo di tornare in modo più approfondito sull’acido citrico.
Concludendo, direi che non possiamo affermare di difendere la vita delle api quando ignoriamo tutto della biologia di un alveare e proprio per questo produciamo, inconsapevolmente, con il nostro lavoro dei danni incalcolabili e spesso irreversibili. Dobbiamo pretendere molto di più da noi stessi, esigere un’elevata professionalità e alta competenza, da noi, cominciando a capire che se non ci rimettiamo in piedi da soli sulle nostre gambe, nessuno potrà farlo per noi e nessuno farà niente per le nostre api, perché questo «non è più un mondo per api». Dimostriamo al mondo ora cosa significano possedere un mestiere e padroneggiarlo, nel rispetto e nella difesa della Natura.
 
 
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Scritto in data 25/02/2014 da Luca Tufano
 
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