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 Patologia
Attivazione immunitaria dell’ape, patogeni e condizioni del pascolo
 
di Gianni Savorelli, Luca Tufano e David Baracchi
 
In maniera del tutto pionieristica il presente articolo cerca di accendere un fiammifero per far luce sulla comprensione dei meccanismi immunitari della singola ape e dell’alveare nel suo insieme e sulla loro relazione con nutrizione e patogeni. Nell’articolo si formulano diverse ipotesi e alcuni interrogativi, ma non sono al momento possibili risposte definitive
 
La modulazione (attivazione) immunitaria sembra essere legata alla natura dell’evento che stressa l’individuo.
La natura dello stress e alcuni suoi parametri (intensità, durata e natura), così come le implicazioni fisiologiche che ne derivano nell’ospite, a sua volta, influenzano la risposta immunitaria in diversi modi (Lazzari e Bottaccioli).
E ancora. Sempre l’attivazione immunitaria può indurre ampie modificazioni comportamentali tanto nell’individuo che nella colonia.
Non è, perciò, cosa da poco capire la fisiologia immunitaria di api e alveare in relazione tanto alle loro condizioni di vita e ai suoi patogeni, quanto alle conseguenti modificazioni comportamentali che possono incidere sulle produzioni e sulla prevalenza dei patogeni stessi.
Citando Lazzari e Bottaccioli: «L’attivazione immunitaria risulta coerente con la risposta fisiologica, a breve termine, allo stress, perché si traduce in una condizione di immuno-protezione da potenziali pericoli. Per comprendere il diverso rapporto delle componenti immunitarie con l’esperienza di stress è stato proposto di raggruppare le diverse tipologie di risposta innata e acquisita o adattativa in relazione alla loro valenza, cioè in rapporto con gli effetti finali prodotti. Si parla così di “immunità protettiva”, “patologica” e “regolatoria-inibitoria”.
Possono esser considerate immunoprotettive le azioni che promuovono la guarigione delle ferite, la riparazione dei tessuti, l’eliminazione delle infezioni. L’immunità “patogena” è quella diretta contro antigeni innocui. Infine, vengono definite come risposte regolatrici-inibitorie le azioni prodotte da cellule immunitarie e fattori che inibiscono o sopprimono le funzioni delle altre cellule immuni (allo scopo di non sovra-esprimersi e auto danneggiarsi, ndr)».
Queste definizioni dei Professori Lazzari e Bottaccioli sono ovviamente per l’essere umano, ma non sembra che per l’ape le cose siano, poi, così dissimili.
Se un microrganismo attraversa le barriere fisiche (cute), chimiche (pH gastrico, enzimi, ecc) o biologiche (microrganismi saprofiti dell'intestino, ecc) si metteranno in moto una serie di meccanismi immunologici (umorali e cellulari) che in modo coordinato risponderanno all'infezione.

Nel caso delle api ci si può chiedere “che cosa attivi che cosa”. Dalla letteratura sembra che anche una normale alimentazione possa indurre un’attivazione immunitaria di tipo “patogeno”, aspetto che appare piuttosto normale, anche considerando la presenza di fitochimici e sostanze a valenza non nutrizionale. Una parte piuttosto piccola dei fitochimici che si trovano nella dieta, secondo Mao e colleghi (2013) produce oltre a un aumento della capacità di detossificazione di xenobiotici (sostanze estranee più o meno tossiche), una parallela produzione di peptidi antimicrobici funzionali al contenimento dei patogeni (batteri, funghi, virus), ingeriti per via orale. Trovare una risposta certa alla domanda del perché l’evoluzione abbia portato a una simile associazione non è per niente facile.
L’alveare è una fabbrica divisa in reparti che per le elevate densità abitative, grandi riserve di cibo, temperatura e umidità costanti ed elevate rappresenta un ambiente perfetto per l'incubazione e la proliferazione di microrganismi patogeni. Una sua parte risulta essere, in tutto e per tutto, un luogo di frontiera. Le bottinatrici che sono le api a più stretto contatto con l’ambiente esterno possono tornare a casa cariche non solo di materie prime alimentari, ma anche di patogeni, fitofarmaci e contaminanti ambientali.
E' pertanto ragionevole chiedersi come il sistema immunitario della singola ape e dell’alveare riescano a difendersi da quanto arriva dall’esterno, in aggiunta a quello che è già presente nell’alveare. Altrettanto naturale è chiedersi quali possano essere i punti critici in grado di limitare prima la produzione dell’alveare, intesa anche dal punto di vista del contenimento della carica patogena, e poi la sua sopravvivenza: spesso si tende a perdere di vista il fatto che la sopravvivenza dell’alveare dipende dalle sue produzioni. Ad esempio, l’alveare deve raccogliere più di 50 Kg di polline l’anno sia per allevare la popolazione di api durante tutto l’arco della stagione sia per raggiungere i risultati che l’apicoltore vede, e non in tutte le situazioni può essere semplice farlo, mantenendo nel contempo le difese attive.

La bottinatrice e le sue difese immunitarie

La bottinatrice ha un comportamento assai simile a un kamikaze. Non ha una grande aspettativa di vita. Le sue difese sono ridotte all’osso sia per privilegiare l’attività lavorativa che per lasciare preziose scorte all’alveare. Da un po’ di anni si trova a dover gestire infezioni, più o meno silenti, indotte da virus e da Nosema ceranae, ulteriormente stressata dalle varie sostanze tossiche che incontra nell’ambiente. Non vi sono studi su come il suo sistema immunitario possa produrre riduzione dei contaminanti presenti in ciò che raccoglie, ma si può ipotizzare (è un azzardo) che questa riduzione sia molto bassa. Per semplificare la trattazione si considererà l’effetto immunitario prodotto dal lavoro della bottinatrice di nettare e da quella di polline: la bottinatrice è in grado di raccogliere anche nettare e polline in contemporanea e  vi è anche il bottinamento di acqua e propoli. La bottinatrice di nettare torna all’alveare e trova ad aspettarla un certo numero di api di casa: si occupano di ricevere il nettare dalla bottinatrice e trasformarlo in miele. Queste api, sebbene fino ad ora nessuno si è preoccupato di farlo, potrebbero essere chiamate mielatrici (costituiscono la stessa classe di api che si occupa di gestire eventuale alimento glucidico somministrato artificialmente all’alveare, come dimostrato dal professor Creilsheim. Di contro, se si somministra alimento proteico se ne occupano le nutrici).

La mielatrice e le sue difese immunitarie

Questo tipo di ape costituisce, per la funzione che svolge, uno dei pilastri portanti dell’alveare. Si tratta delle api più vecchie, tra quelle che non escono fuori a bottinare. Ci sono evidenze sperimentali che dimostrano come questo gruppo disomogeneo di api possa svolgere fino a 15 diversi compiti nell’alveare. La mielatrice entra a contatto con api (le bottinatrici), potenzialmente contaminate e infette, e riceve una sostanza (il nettare), altrettanto potenzialmente contaminato.
Il suo compito? Sta nel trasformare, attraverso processi chimici di natura enzimatica, il nettare in un alimento più complesso, arricchito di proteine e maggiormente dotato di proprietà disinfettanti, detossificanti e immuno-regolative. Deve anche ripulire il più possibile il miele prodotto da patogeni e da sostanze tossiche.
Ha, dunque, necessità consistenti sotto diversi punti di vista. Necessita di molte proteine (ma sarebbe più corretto dire aminoacidi) in parte da aggiungere al miele; in parte da utilizzare per produrre gli enzimi necessari alla trasformazione del nettare in miele. E’ soggetta, infine, a una variabile attivazione immunitaria secondo quel che “incontra” da elaborare e anche di quello di cui si ciba.

Il trade off energetico relativo al mantenimento in opera del suo sistema immunitario

Mantenere un’elevata attivazione del sistema immunitario ha un costo in energia e risorse assai elevato e non sempre è necessario. Di conseguenza, le api, così come tutti gli esseri viventi, devono trovare un equilibrio fra quanto investire in risorse immunitarie e quanto investire in altre attività. Nel caso della nostra ape mielatrice è rappresentato in massima parte dalla sua attività lavorativa: trasformare il nettare in miele. Difficile far funzionare entrambe le “macchine” al massimo regime, in contemporanea, se non al costo di ridurre drammaticamente la durata della vita...
Di conseguenza, secondo quello che riceve, l’ape mielatrice manterrà un certo livello di difese immunitarie (modulazione o attivazione immunitaria), cercando (ma non sempre riuscendoci) di ottenere in questo il massimo profitto complessivo. Ciò, in certe situazioni, può portare l’alveare a produrre quantitativamente di più, rischiando però problemi sanitari nel futuro.
Il modo di lavorare dell’ape mielatrice è fondamentale sia per la salute presente e futura (dell'ape) che dell’alveare. Compito di questo tipo di ape, è creare le premesse affinché le api della generazione presente e successive trovino nel miele il minor carico di patogeni possibile, raggiunto sia mediante disinfezione diretta, indotta dalla mielatrice, che dell’inserimento di sostanze disinfettanti come defensine e acido gluconico.
Quel che deve essere chiaro è che la mielatrice è obbligata ad affrontare un investimento energetico (e incorrere in una riduzione dell’investimento nelle proprie difese immunitarie) per ottenere miele potenzialmente sterile e sterilizzante (o quasi), in grado di indurre un certo livello di “attivazione delle difese immunitarie e di detossificazione” in chi lo consuma (Johnson et al., 2012; Mao, Schuler, Berenbaum, 2011). Il miele è in parte in grado di sostenere direttamente le difese immunitarie delle api (defensine) e in parte in grado di annullarne gli effetti negativi, conseguenti alla sua attivazione (effetti di ossidazione attenuati tramite antiossidanti esogeni). Se la mielatrice investisse troppo nel proprio sistema immunitario complessivo potrebbe arrivare a produrre meno di quello che ha consumato per farlo (Rothembuler negli anni ‘60 produsse una linea di api resistenti alla peste americana. Non se ne ammalava mai nessuna, ma non producevano una goccia di miele in eccesso, rispetto ai loro consumi).
Se, per contro, si investe troppo poco nel sistema immunitario si rischia di “ammalarsi” e morire, rappresentando una perdita ancora più grave per l’alveare. Alla meglio produrrà miele contaminato (da patogeni) e scarsamente disinfettante. A volte, l’ape non può decidere in proprio e la disponibilità quantità/qualità di aminoacidi (derivanti dal polline) ne condiziona, probabilmente, sia la competenza immunitaria che la capacità di inserire sostanze disinfettanti nel miele. La qualità di miele di cui dispone (prodotto in passato da altre api) ne condiziona il livello di attivazione immunitaria e di detossificazione.
In altre parole, lavorare su certe fioriture può costringere la mielatrice a produrre miele scarsamente disinfettante e a lavorare in situazioni di scarsa attivazione immunitaria e di detossificazione. Nell’immediato, potrebbe anche essere un apparente ottimo risultato, ma creare le premesse per difficoltà successive. Un po’ come se un pilota automobilistico, in pista, si portasse davanti all’avversario prendendo una curva a velocità molto maggiore, ma che inevitabilmente alla curva successiva andrebbe fuori pista.
Vi è mai capitato di vedere alveari che hanno prodotto tanto nell’anno e poi sono morti senza una causa apparente?
E non è tutto.
La disponibilità di propoli condiziona il livello di attivazione immunitaria e di detossificazione (avendo proprietà antimocrobiche ed essendo una fonte primaria di acido cumarico, il più importante dei famosi fito-attivatori) ed è anche in grado di migliorare l’aspettativa di vita delle api, forse a causa della quantità di antiossidanti esogeni che contiene.
Per cui non è da escludere che le api abbiano bisogno di polline e propoli per fare miele di qualità, sufficiente a garantire loro un sereno futuro. E’ ormai ben chiaro che il miele è molto lontano dall’essere unicamente fonte di glucidi per le api.
Ora sembra esservi un equilibrio estremamente precario nelle esigenze di aminoacidi, antiossidanti, minerali, glucidi, attivatori immunitari nel corso dell’anno e degli anni in relazione alla presenza di patogeni, che hanno dei cicli di sviluppo piuttosto precisi.

La nutrice e le sue difese immunitarie

La nutrice è, verosimilmente, un altro pilastro dell’alveare.
La raccoglitrice di polline torna all’alveare e va a scaricare il polline nelle cellette. Le nutrici, che non hanno interazioni rilevanti e dirette con bottinatrici, vanno a prelevare il polline direttamente dalle cellette, per farne pane d’api e per utilizzarlo.
Anche il polline non è una sostanza facilmente digeribile. Contiene fitochimici e può contenere patogeni. Richiede una certa attivazione immunitaria e abilità di detossificante, tanto più consistente quanto maggiore è la presenza di acido cumarico. L’ape nutrice ha un ottimo sistema immunitario e ottime capacità detossificanti.
La nutrice produce cibo proteico per tutti (dalla covata giovane, alla regina, alle api vecchie e come la mielatrice deve ottimizzare la spesa/produzione). Il fatto che il suo prodotto sia sterile e contenga determinate proteine in quantità la rende responsabile della salute della covata, che è il futuro dell’alveare. Anche la nutrice deve fronteggiare la possibilità di infezioni da patogeni e visto che entra a a stretto contatto con la varroa è estremamente esposta ai virus.
Situazioni di nutrizione artificiale tradizionale possono mettere l’alveare in situazioni di minima attivazione immunitaria rispetto a quanto naturale, con relative difficoltà. In questo caso si verificano anche parallele diminuzioni di presenza di antiossidanti esogeni e di disinfezione nell’alimento glucidico. Il cumarico dovrà essere fornito dalle nutrici alle api più vecchie ed essere utilizzato da loro. Perciò ci possono essere degli sbalzi di presenza che determinano vuoti di attivazione immunitaria.
Al paradosso, nutrire famiglie in difficoltà per motivi diversi da carenze glucidiche porta verosimilmente a un ulteriore abbassamento dell’attivazione immunitaria (minore attenzione del sistema ai patogeni, maggior sensibilità agli xenobiotici e verosimilmente produzioni di ancor minor qualità).
Non c’è dubbio che un certo tipo di dieta mantenga le singole api (e di conseguenza l’alveare) più vigile e sensibile alle infezioni per via orale. Un’alimentazione povera di questi fito-attivanti potrebbe rappresentare una finestra aperta per Nosema ceranae, virus e batteri. E se il fatto tende a diventare cronico si può arrivare a un’alta prevalenza di patogeni nell’alveare (alto numero di api infette), fino a giungere al collasso dell’intera famiglia.
Da ciò emergono diversi interrogativi: la nutrizione glucidica sintetica tradizionale facilita la proliferazione del Nosema ceranae, in primavera? Probabilmente sì.
In autunno? Probabilmente sì.
In conseguenza di una minore attivazione nelle fasi di lavorazione si determina un maggiore accumulo di patogeni nel miele? Sarebbe bello avere una risposta, ma, probabilmente, la questione non deriva solo dal livello di attivazione immunitaria e occorre chiamare in causa anche la qualità della parallela alimentazione (proteica), disponibile.
Relativamente al superamento dell’inverno la questione può essere ancora più pesante per l’importanza degli antiossidanti sulla durata di vita dell’ape invernale.
Le manovre dell’apicoltore che riducono la capacità di bottinamento tendono, per forza di cose, a far lavorare le api a un livello qualitativamente più basso sia di attivazione immunitaria che di competenza immunitaria, e con minore dedizione alla costruzione delle difese immunitarie sociali.
La salute dell’alveare sembra derivare dalla sua storia, dagli eventi negativi che ha passato i quali lasciano strascichi che, prima o poi, avranno un prezzo da pagare. L’apicoltore è solito costituire famiglie nuove per rimpiazzare le perdite, ecc.
Ma qual è il record di sopravvivenza dei singoli alveari negli anni? In quest’ottica si aprono a cascata diversi interrogativi.
L’ape, secondo le situazioni, è in grado di valutare la propria condizione sanitaria e fare delle scelte di “automedicazione” cercando di bottinare cibi a maggior valenza medica? Di risposte ne abbiamo ancora poche, ma per quel che sappiamo, è, ad esempio, dimostrato che in presenza di covata calcificata aumenta la raccolta di propoli.
Si è sempre cercato di valutare la quantità massima di alveari che un determinato territorio è in grado di sostenere (anche per gestire l’afflusso nomadistico), ma lo si è sempre fatto sulla base del potenziale nettarifero. Non sarà che dovrebbe essere calcolato sopratutto sulla base della potenziale disponibilità di polline e propoli?
 
 
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© Apitalia - Tutti i diritti riservati
Scritto in data 14/02/2014 da Gianni Savorelli, Luca Tufano e David Baracchi
 
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