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 Patologia
Il punto sulla situazione sanitaria delle api
 
di Gianni Savorelli
 
Patogeni nuovi e vecchi, in cordata, sfidano sempre più il Sistema Immunitario sociale dell’alveare e quello dell’ape. Una partita il cui esito può essere determinato da diversi fattori esterni quali disponibilità di risorse e presenza di fitofarmaci
 
La conoscenza del Sistema Immunitario dell’ape è ormai buona, grazie a una serie di studi che si sono avvalsi di tecniche di biologia molecolare, studi analoghi a quelli portati avanti per le malattie che riguardano l’essere umano. Insomma, di strada se ne è percorsa tanta. Così, oggi il Sistema Immunitario non è più uno sconosciuto e si sa come funziona nei confronti dei vari patogeni, come riesce a contenerli e anche per quali motivi, a volte, non riesce a tenervi testa.
E quello dell’ape? Si tratta di un Sistema Immunitario composto da diversi “reparti” specializzati (per così dire). Per semplificare molto una questione complicata possiamo ricorrere a una metafora: pensate a un Consiglio di amministrazione (l’insieme del patrimonio genetico dell’ape) che delega quattro dei suoi componenti (elementi) a occuparsi di diverse incombenze. In pratica, dopo aver identificato un patogeno arrivato per via orale dentro il corpo dell’ape, i quattro Consiglieri, due sono più attivi degli altri, incaricano un Direttore operativo a dare le consegne a diversi Corpi d’armata specializzati. L’obiettivo? Sbarrare l’accesso all’aggressore.
Ma passiamo dalla metafora al livello scientifico. Avviene che i geni TOLL e IMD attivano il fattore di trascrizione NF-kB (svolge un ruolo primario nella regolazione della risposta immunitaria, nell’infiammazione, nella proliferazione cellulare, nell’apoptosi e nel cancro, ndr) che determina prima di tutto la cascata di produzione dei peptidi antimicrobici come apidecina, abecina, imenopetecina edefensina 1 e defensina 2 che costituiscono l’immunità umorale. Entriamo più in dettaglio. Ci sono due tipi di difesa specifica: l’immunità cellulare e l’immunità umorale. La prima consiste nell’uccidere direttamente le cellule estranee. La seconda, invece, consiste nel produrre proteine - anticorpi - per indebolire le cellule estranee e distruggere gli antigeni e le tossine (ndr).
Queste piccole proteine, più precisamente peptidi, sono di fatto degli antibiotici (il significato della parola è “contro la vita”). Vi è, poi, una risposta di tipo cellulare che ha analogie con quella dei mammiferi e prevede nodulazione, incapsulazione, e altro (sistemi di immunità cellulare, ndr), e l’attivazione della cascata della fenolossidasi che dà luogo a melanizzazione con il risultato che le api diventano scure, in diversi casi nere.
L’esempio più tipico di questa risposta avviene relativamente al virus CBPV (virus della paralisi cronica delle api) che per questo motivo fu chiamato “mal nero”, ma allora non si sapeva che le api divenissero nere in seguito alla loro risposta immunitaria. Il tipo delle risposte immunitarie prodotte è identico in tutte le api, anche se la quantità di difese allertate in risposta ai patogeni deriva dalle caratteristiche genetiche dell’ape e dalla disponibilità di risorse che può schierare. Per la verità, le differenze genetiche tendono a produrre anche piccole differenze nelle strutture di questi peptidi antibiotici, con probabili differenze di efficacia.
Visto che l’alveare è un insieme di circa 16 sottofamiglie vi saranno, perciò, diversi gradi di risposta delle stesse con alcune api più resistenti (o tolleranti) ai patogeni e altre più sensibili. Sia che si tratti di larve che di api adulte sono sempre queste ultime a permettere il progredire dell‘infezione (Fries) nell’alveare. L’ape si trova ad avere difese che riescono a reggere l’assalto di patogeni storici; poi, nel tempo, vi è stato, con essi, adattamento. Trova difficoltà consistenti, invece, con quelli di recente introduzione (come il Nosema ceranae).
E c’è dell’altro. In certi casi aggirano, addirittura, le prime linee di difesa come avviene quando virus (che dovrebbero invadere per via orale o per via cuticolare) come l’IAPV (Virus della Paralisi Acuta Israeliana), è una recentissima mutazione, si trovano a essere iniettati direttamente nel circolo dell’emolinfa, nel suo sangue, dall’azione della varroa. In questo caso sembra non resti che far ricorso all’RNA interferenza (capacità di interferire - e spegnere - l’espressione genica). Dal lavoro di Nazzi e colleghi è noto che il virus DWV riesce “a distrarre il Direttore”, il fattore di trascrizione NF-kB, dai suoi compiti (sotto regolazione) col risultato di una minor produzione di peptidi antibiotici - attivi contro un ampio spettro di specie batteriche patogene - (e altro). Da ciò ne consegue che un’ape infettata da DWV ha minori difese per opporsi, oltre che al DWV stesso, anche a tutti gli altri patogeni che potrà incontrare nella sua vita, pur nelle migliori delle situazioni ipotizzabili. La varroa ha con il DWV una sorta di simbiosi e per quanto sia difficile da capire e da accettare è questo il primo “problemone” che essa crea, tanto più quanto più è presente, diffondendo nell’alveare un agente che riduce le difese immunitarie delle api.
Il secondo? Si presenta quando alla varroa si associa il virus IAPV. Si tratta di un virus che riesce a moltiplicarsi nella varroa e quando l’acaro lo inietta nell’ape questa muore in tre giorni, dall’infezione (Li e colleghi, Eurbee, 2013). E nei confronti del Nosema ceranae? La risposta immunitaria consiste essenzialmente nella produzione in sequenza dei 5 peptidi antimicrobici sopra descritti (Schwarz e Evans, 2013), ma non sembra essere del tutto efficace. Dopo 9 giorni è ancora attiva “a tutto spiano”, ma 9 giorni rappresentano un quarto dell’intera vita, massima, dell’ape e la metà di quella, massima, da bottinatrice. E’ un tempo di attivazione immunitaria enorme che sfinisce l’ape, provocandone una diminuzione dell’aspettativa di vita. A maggior ragione, se il Direttore, il fattore NF-kB, è “imbambolato” dall’infezione da virus DWV. Risultato? Si registrerà una scarsa presenza di peptidi, utili a contrastare il Nosema, con l’aggiunta che questa forte richiesta di peptidi può rendere impossibile il controllo di DWV: la sua moltiplicazione diviene esplosiva (Nazzi e colleghi). Insomma, per l’ape gestirne due è problematico.
Vi sono, poi, buone conoscenze anche per quanto riguarda le manovre di disinfezione che le api dell’alveare operano e che fanno parte dell’immunità sociale, dal momento che è decisamente evidente che è sicuro interesse dell’alveare fare in maniera che alle api che consumano i cibi prodotti giunga il carico minimo possibile di patogeni. E’ per di più noto come le infezioni prodotte dai patogeni possano ridurre la qualità delle manovre suddette. Queste azioni di disinfezione derivano dalle api più vecchie (che spesso sono anche le più malate e che dunque non riescono a fare il lavoro con la qualità necessaria) per quel che riguarda il miele, mentre le nutrici si occupano di inserire nella pappa diverse sostanze antibiotiche (Defensina 1 e Jelleine), sempre che la disponibilità di polline lo permetta.
Poi, ci sarebbero le pulizie e le disinfezioni dei favi. Possiamo brevemente pensare alla ecletticità dell’uso di defensina 1 per la disinfezione dei favi e nel contempo inserita nel miele dalle api più vecchie (come proposto dal Prof. Klaudiny) e presente anche nella pappa (che le bottinatrici ricevono dalle nutrici), la cui produzione deriva dal polline; oppure pensare alla cascata della glucosio ossidasi, anche questa derivante dal polline “via pappa”, che produce prima acido gluconico e a partire da questo acqua ossigenata (entrambe le sostanze hanno potenti capacità microbicide).
E’ curioso che nei testi che parlano di miele si legga in relazione alla sua acidità che derivi, principalmente, dalla presenza di acido gluconico. Ora si dovrebbe anche scrivere che il gluconico sia presente per svolgere azione microbicida, dato che spesso si parla delle capacità antimicrobiche del miele, ma questa capacità è fondamentale prima di tutto per le api.
Si può far notare che vi sono, ancora, sostanze, sempre di derivazione pollinica, che non hanno effetti diretti sulla disinfezione ma solo sulla produzione. Si pensi, ad esempio, a un aspetto su cui poco si riflette. Come fa l’ape a fare il miele? Ciò è possibile grazie all’enzima alfa glucosidasi (e agli altri della stessa famiglia): la bottinatrice lo produce nelle ghiandole ipofaringee modificate allo scopo (Ohashi) per convertire, semplificando, il nettare in miele.
Andiamo avanti. La bottinatrice (di polline o di polline e nettare) torna a casa con due belle “masserelle” di polline attaccate alle cestelle. Certo è inevitabile porsi un interrogativo: «come ha fatto a far diventare due masserelle coese una infinità di granuli del diametro di circa 150 micron?». Ha usato un “adesivo fatto in casa”...
Però, se una bottinatrice è malata, se da nove giorni almeno è soggetta a un’attivazione immunitaria strepitosa, per contrastare le infezioni da Nosema e da Virus, e in aggiunta non ha sufficiente nutrizione proteica dalle consorelle, come riesce a produrre gli “strumenti” biochimici necessari per il suo lavoro? La risposta? Non riuscirà a trasformare il nettare in miele né a mantenere uniti i granuli di polline, perdendoli per strada. La conseguenza? L’alveare si impoverirà sempre di più perché quello che è, di sicuro, evidente dalla letteratura è che sia la competenza immunitaria della singola ape, come viene chiamata, sia l’efficenza dell’immunità sociale dipendono, in maniera drammatica, da quello che l’ape mangia: ciò che l’alveare raccoglie. Se l’alveare si indebolisce e raccoglie poco (è lo stesso che dire raccoglie poco e si indebolisce) le sue difese immunitarie ne risentono fortemente per la bassa disponibilità di proteine di stoccaggio, principalmente vitellogenina, nella emolinfa delle api, da trasformare sia in strumenti di lavoro che in difese dai patogeni.
Già nel 2011, Apitalia numero 9, il lavoro di Di Prisco e colleghi “Varroa e Virus Israeliano della Paralisi Acuta” ha mostrato come gli alveari deboli presentino, invariabilmente, un basso livello di vitellogenina (un’importante proteina di stoccaggio il cui “smontaggio” dà luogo a proteine con funzioni diverse, anche immunitarie, ndr) nelle singole api e che in queste siano possibili esplosioni di replicazioni virali, persino in completa assenza di varroa e, a maggior ragione, in sua presenza. Come dire che gli aspetti che riguardano la sanità dell’alveare non hanno a che fare solo con la sua sopravvivenza, ma molto prima con le sue produzioni. Bisognerebbe evitare di credere che dal momento che un alveare è vivo possa, comunque, produrre a prescindere.  
Insomma, l’ambiente, per quel che offre da portare a casa, è fortemente condizionante le difese delle api (Di Pasquale, 2013), al punto che si può ormai considerare dimostrata l’incidenza geografica o ambientale delle patologie (Di Pasquale, 2013). A limitare la capacità di raccolta dell’alveare (che determina cosa può trasformare in difese) non sono solo le disponibilità ambientali e le patologie stesse, ma a volte è in prima persona l’apicoltore che spacca e blocca, togliendo troppe api o riducendone gli stimoli ferormonali. Va a finire che operando così si riducono anche presupposti per poter raccogliere quanto necessita, limitando la capacità di lavoro della famiglia che poi si troverà “a penare”.
Allo stesso modo sono buone le conoscenze anche sui patogeni che l’attaccano. L’ape riuscirebbe ad avere una vita di circa 40 giorni se fattori di diverso tipo non gliela accorciassero. Se “campa” solo 30 o 20 l’alveare non raccoglie e non produce e se non produce si estingue come mostrato dal modello di Khoury.
Nella situazione attuale i patogeni hanno un ruolo consistente nella riduzione della vita dell’ape di famiglie non sintomatiche e apparentemente sane.Tanto più quanto l’ambiente è ostile (Di Pasquale, 2013). E la riduzione di vita dell’ape abbassa le prestazioni dell’alveare e delle altre api. Bisognerebbe per ciò capire bene l’effetto diretto dei patogeni sull’ape (dato che la stessa può tranquillamente subire infezioni multiple da virus e se ne sono trovati fino a 5, contemporaneamente presenti, + Nosema + varie ), mettendo in primo piano anche l’effetto che la malattia che colpisce la singola ape va a provocare, indirettamente, sulla complessiva situazione dell’alveare.
E sì, perché nella “casa” delle api si possono presentare infezioni dagli effetti acuti (ovvero morte dell’ape in pochi giorni) da virus IAPV (correlato a varroa che è un TIR, anche se spesso non lo si considera) o ABPV (correlato ad altissima presenza di varroa). Questi sono virus tutto sommato relativamente rari e sarebbe bene continuassero ad esserlo.
E non finisce qui.
Si possono manifestare riduzioni della aspettativa di vita della singola ape che possono derivare da infezioni definibili croniche come Nosema ceranae, associato a BQCV e DWV (approfittano molto delle carenze nutrizionali determinate dall’ambiente, (Di Pasquale, 2013), o dai patogeni stessi. E’ soprattutto dalla concatenazione delle diverse infezioni, particolarmente in situazioni di scarsità di qualità di polline (Di Pasquale, 2013) che l’alveare si trova a mal partito. Esattamente come una famiglia mono reddito che debba pagare 800 euro di affitto per la casa e con 600 euro riuscire a fare tutto il resto. L’ape prima (a livello di competenza immunitaria del singolo) e l’alveare poi vengono a trovarsi nella stessa identica situazione. L’ impoverimento proteico, la scarsità di risorse alimentari, provocate dal ceranae o da altro, può portare alla moltiplicazione esplosiva di DWV, a una maggior densità di varroa, che si sviluppa di più se l’alveare fa fatica a riscaldare e da qui a una maggior presenza virale e maggior suscettibilità ai fitofarmaci (Medrzycki) e via via in un bel girotondo in cui si può considerare che la diffusione di un patogeno facilita anche quella di altri (Genersch).
Tutti gli altri patogeni “minori” possono aggravare la situazione, determinando ulteriori perdite di api. CBPV può diventare fonte di perdite di api adulte in primavera. Altre patologie possono far perdere api prima che arrivino all’età adulta. Calcificata (relazionata alla quantità di varroa presente e al Nosema) Europea (in verosimile aumento in conseguenza della diminuzione di disinfezione dell’alveare). SBV ovvero virus della covata a sacco. La peste americana può portare a perdere l’intero alveare.
L’azione meccanica e diretta della varroa (le larve infestate non possono certo essere definibili dotate di un futuro da lavoratori integri) fa le sue vittime. Il quadro è, inoltre, peggiorato dagli stress ambientali: diversi tipi di fitofarmaci possono aumentare la sensibilità ai patogeni o far esplodere infezioni silenti. E in parallelo i patogeni aumentano la sensibilità ai fitofarmaci (Vidau). L’apicoltore dovrebbe essere molto accorto anche nell’uso dei varroacidi che dovrebbero essere impiegati con presenza molto bassa di virus vari e Nosema, per evitare la loro moltiplicazione in conseguenza dello stress che l’ape deve sostenere per sopportare il varroacida e disintossicarsi da esso. In altre parole, lo sforzo per disinnescare le tossine che costituiscono il principio attivo utilizzando gli adeguati strumenti biochimici.
E veniamo ai neonicotinoidi.
Di certo, amplificano la sensibilità al Nosema (può far esplodere DWV) e direttamente scatenano la replicazione del virus DWV (Di Prisco).
Imidacloprid, da parte sua, associato a ceranae riduce la produzione di glucosio ossidasi, ovvero la capacità di disinfezione del miele (Aloux), con quel che ne consegue.
I cosiddetti “bagnanti” (sostanze utilizzate per migliorare la dispersione del principio attivo dei fitofarmaci) sono molto più tossici del principio attivo stesso, secondo una quantità di letteratura (Mullin, su tutti) con particolare accento su organosilossani.
I fungicidi, alla chetichella, poco noti e ignorati, sono forse quelli che all’alveare producono i problemi maggiori secondo una quantità di letteratura che varrebbe la pena riportare in un articolo a parte.
Concludendo, nella situazione attuale i fitofarmaci presenti nell’ambiente più che un effetto di tossicità acuta richiedono all’ape uno sforzo di detossificazione, sforzo che distoglie energie preziose dal contenimento del consistente carico di patogeni che l’affligge. La ristrettezza di disponibilità alimentare (intesa soprattutto come qualità) è l’ulteriore, oggettiva, complicazione (Di Pasquale, 2013), dato che è la base sia per l’espressione delle difese immunitarie che per il ricambio della popolazione. Il risultato è la riduzione della durata di vita e della capacità lavorativa dei singoli che si trasforma in sfacelo della famiglia.
La scienza ha oggi fornito una quantità di risposte, magari non saranno arrivate agli occhi di tutti e da tanti non saranno facilmente accettate, che, in estrema sintesi, dicono che l’ape ha bisogno di fronteggiare meno patogeni e di mangiare meglio.
Statene certi, amici apicoltori, vi ricompenserà abbondantemente come ha sempre fatto.
 
 
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L’ovale bianco in alto a sinistra è una spora di Nosema ceranae che è germinata. Da notare il lungo filamento che scende fino in basso a sinistra, troppo lungo per essere “preso” in un’unica foto (www.beeccdcap.uga.edu).
 
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© Apitalia - Tutti i diritti riservati
Scritto in data 30/10/2013 da Gianni Savorelli
 
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