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 Patologia
Peste americana e Nosema ceranae
 
di Gianni Savorelli & David Baracchi*
 
Se nella città delle api tutto non procede per il verso giusto, le conseguenze possono essere piuttosto imprevedibili e talvolta persino al limite dell’immaginabile, ma sempre e comunque spiacevoli Titolo originale del lavoro “Casi di peste americana in aumento? La colpa anche di Nosema ceranae-Imidacloprid e scarsa qualità dei pollini”
 
Una volta, una trentina di anni fa, esisteva persino una rivista che si chiamava “la città delle api”.
La rivista prese il nome dal fatto che l’alveare deve essere considerato come una città in cui gli abitanti svolgono tutti i compiti in modo collaborativo e sociale. Ci piace, tuttavia, anche chiamarlo la “fabbrica” delle api, dal momento che con questa accezione si sottolineano con maggior chiarezza ed enfasi alcuni concetti.
In natura, lo scopo dell’alveare è la sopravvivenza e la produzione di un alveare “figlio”, per usare una terminologia cara a vecchie conoscenze, ovvero la propagazione della specie. Una volta parzialmente “addomesticato”, lo scopo “classico” dell’alveare diventa la sopravvivenza in primis, e una produzione di miele in eccesso rispetto a quanto necessario per passare l’inverno e possibilmente sciamare la primavera successiva.
In condizioni ideali si può persino arrivare a raggiungere entrambi gli obiettivi.
Non bisogna mai perdere di vista, però, il fatto che lo scopo primario dell’alveare è la sopravvivenza (il mantenimento del capitale come direbbe un commercialista) che non è mai garantita, particolarmente di questi tempi. Mettere a repentaglio la salute per avere un pochino di più non è una cosa sensata in natura, dato che per recuperarla, sempre che sia possibile, i costi risulterebbero superiori a quello che si è ottenuto con tanto sacrificio. L’alveare deve, perciò, sempre calcolare gli sforzi con una ragionevole parsimonia ovvero giocare più in difesa che in attacco. Questo porta alla sua logica di produzione.
Proviamo, allora, a pensare agli alveari come a fabbriche alimentari che producono in conto terzi per un asilo in grado di coprire le necessità che vanno dal “nido” a “l’età in cui si parte militari dopo la laurea” e i cui frequentatori andranno a lavorare nelle fabbriche alimentari come ingegneri con difese immunitarie piuttosto scarse (da questo punto di vista la singola ape è molto più debole degli insetti individuali). In qualsiasi fabbrica alimentare, così come nell’azienda dell’apicoltore o nella sua cucina di casa, possono esserci in vigore criteri igienici più o meno rigidi. Alcune strutture lavorano ISO 9000, altre molto alla buona. In alcuni casi, il risultato sarà un prodotto alimentare esente da presenza di contaminazioni o patogeni; in altri si può trovare la mosca nel piatto. E perché mai per le api dovrebbe funzionare diversamente? La condizione ideale per l’alveare è la produzione di cibo il più possibile “sterile”, dato che le singole api risultano, spesso, piuttosto vulnerabili a patogeni ed epidemie.
E’ dimostrato che nel circuito di produzione del miele possono finire sostanze estranee e patogeni che se non eliminati finirebbero per costituire il piatto forte per i neonati. Il nettare dei fiori, dunque, mano a mano che si trasforma in miele, deve essere disinfettato da quello che eventualmente può contenere e soprattutto da quello che le api stesse vi possono inavvertitamente introdurre.
Il miele, insomma, durante la sua produzione, finisce per acquisire proprietà antisettiche.
Ma come avviene? Le api sono in grado di produrre dalle ghiandole salivari un enzima che si chiama glucosio ossidasi e che come dice il nome stesso ha la capacità di utilizzare ossigeno per catalizzare (facilitare) la trasformazione del glucosio (lo zucchero che si trova nel nettare viene ossidato). Alla fine del processo quello che si ottiene è una sostanza di nome acido gluconico e perossido di idrogeno (acqua ossigenata). L’acido gluconico è una sostanza assai interessante, dotata di molte belle qualità, al punto da essere stata registrata come fungicida. Il perossido di idrogeno, invece, è un ottimo disinfettante noto decisamente a tutti. Questa reazione può avvenire sia nella bocca dell’ape che nel miele da essa prodotto o rielaborato. La possibilità per l’ape di attivare questa cascata biochimica disinfettante ha lo stesso ruolo di disinfezione che può avere per un fornaio lavarsi le mani, ben bene, tutte le sere quando comincia a lavorare, dopo essere stato al bar a giocare a carte o a leggere il giornale. Ma per l’ape non è certo automatico poter produrre la glucosio ossidasi. Deve avvenire l’attivazione di particolari geni grazie ai quali determinate sostanze appartenenti alla famiglia degli amminoacidi (i precursori dell’enzima) vengano trasferiti nelle specifiche fabbriche e lì sarà prodotta in quantità variabile, da ape ad ape, a secondo la sua genetica, della sua età, del suo stato di salute e di nutrimento.
In particolare, dalla letteratura scientifica due fattori risultano essere in grado di avere effetti negativi sulla produzione di glucosio ossidasi e sono la dieta (carente) e il Nosema ceranae, unito all’azione di alcuni neonicotinoidi.
Questi aspetti sono stati studiati da Aloux e altri. Il risultato del loro lavoro è l’osservazione di una significativa riduzione dell’attività di glucosio ossidasi in api infette da Nosema ceranae e, contemporaneamente, a contatto con imidacloprid. Alosa e altri prima di noi hanno concluso che l’interazione fra il patogeno delle api e il fitofarmaco induce immunodepressione e riduce anche la produzione dell’enzima. La produzione dell’enzima è, invece, essenziale, come abbiamo detto per la produzione di antisettici, per sterilizzare i vari tipi di alimento, sia pappa (Sano, 2004, citato da Aloux stesso) che miele (White et al., 1963; Ohashi et al., 1999).
Se ci si domanda quale sia il patogeno che più degli altri manifesta i suoi effetti in conseguenza di un suo incontrollato accumulo nel miele si può probabilmente concludere che la risposta è il Paenibacillus larvae, ovvero il batterio della peste americana. Di conseguenza, per logica di ragionamento, si è portati ad affermare che la contemporanea esposizione dell’alveare a Nosema ceranae e imidacloprid porti a un aumento dell’incidenza di peste americana, in conseguenza della diminuzione di attività di disinfezione del miele (conseguente alla diminuzione di attività di glucosio ossidasi prodotta dalla sinergia patogeno/fitofarmaco). Ma vi è dell’altro.
Nel loro lavoro, Aloux e collaboratori hanno controllato la dimensione della ghiandola ipofaringea, che è la “fabbrica” della pappa, nelle varie situazioni di infezione in cui si può trovare un’ape. Anche in questo caso si trova che l’infezione da Nosema ceranae, con contemporanea presenza di imidacloprid, produce una diminuzione significativa della dimensione della ghiandola, valutabile circa al 30%. Dato che la produzione della pappa è direttamente correlata alla dimensione della ghiandola si arriva a dire che se l’infezione da Nosema e l’imidacloprid arrivano alle nutrici, le larve potranno ricevere quantità significativamente ridotte di nutrimento. Risultato? Ci sarà una riduzione della quantità di larve allevate e, verosimilmente, una riduzione della loro competenza immunitaria. In altre parole, in tale situazione le larve, già indebolite, subiranno un’esposizione a un carico maggiore di spore di Paenibacillus larvae. Usando un gergo caro ad alcuni amici si potrà perciò dire che la sinergia fra Nosema ceranae e imidacloprid porta all’insorgenza della peste americana. Ovviamente, anche il N. ceranae è notevolmente presente nel miele, dato che viene prodotto dalla coorte di api maggiormente esposta al patogeno. E da ciò è chiaro che Imidacloprid porti indirettamente anche a una maggior quantità di spore nell’alveare, con inevitabile rafforzamento dell’infezione da Nosema ceranae. E’ verosimile anche un aumento del titolo virale nel miele e nell’alveare stesso, in particolare BQCV che segue in parallelo il N. ceranae e DWV.
La carenza alimentare (prodotta sia da condizioni ambientali che da difficoltà di raccolta causate da condizioni di salute precarie delle bottinatrici) ha secondo Aloux lo stesso tipo di effetto. Una dieta derivante da una presenza poliflorale produce una maggior attività di glucosio ossidasi, rispetto a quanto osservabile in conseguenza di una dieta derivante da condizioni di fioritura monoflorale. La differenza è molto significativa: oltre il 40%. Anche in questo caso, per logico ragionamento, si può ipotizzare che la condizione di monofloralità tende a condurre verso un aumento di incidenza della peste americana per il minor effetto di disinfezione che si viene a determinare negli alimenti. Il caso peggiore in assoluto che si può verificare? Ristrettezza di raccolto alimentare, dovuta a monofloralità o difficoltà di raccolto o a entrambe, in concomitante presenza di Nosema ceranae e imidacloprid. Da ciò si può prevedere la probabilità massima di insorgenza di peste americana, ma occorre, ovviamente, sempre considerare da quale livello di presenza di spore del patogeno si parta.
Ciò che viene a mancare, infatti, sarà la capacità di disinfezione e di inibizione della proliferazione delle spore presenti. Il rischio sarà logicamente tanto più basso, quanto più basso sarà il livello di presenza del patogeno nell’alveare. E’ indubbio che all’ape, poveretta, servirebbero ristoranti migliori e una drastica riduzione della presenza di Nosema ceranae e fitofarmaci.
Tradizionalmente non era infrequente trovare colpito da peste americana l’alveare più forte dell’apiario e si diceva che era andato a saccheggiare da colonie al collasso, anche se magari non era quella la causa. Era, verosimilmente, un caso derivante da accumulo di spore del patogeno in una famiglia forte e dotata di difese immunitarie relative. Oggi sembra possibile trovare, con discreta frequenza, la peste americana (in certi casi anche accompagnata da quella europea) in famiglie con poche api e in condizione precaria, a significare prevalenza del patogeno o dei patogeni in conseguenza di immunodepressione della famiglia, a margine del collasso che la stessa sta vivendo.
 
 
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Spore di Nosema ceranae

 
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© Apitalia - Tutti i diritti riservati
Scritto in data 25/09/2013 da Gianni Savorelli & David Baracchi*
*Dr. David Baracchi research activity is currently supported by a Marie Curie Intra European Fellowship within the 7th European Community Framework programme
 
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