Spariscono le api, ciliegeti a rischio nel Barese [Torna all'indice generale] |
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![]() Stavolta, però, gli effetti possono essere devastanti specialmente per i 16mila ettari (metà della superficie nazionale) di ciliegeti del Barese. Monaco lancia l’allarme: «Le piante sono quasi tutte autosterili e ci vorrebbero, per l’impollinazione, 60/70mila alveari. Questo servizio è assicurato solo in piccola parte da apicoltori nomadisti che si spostano da altre regioni. In Puglia, secondo una stima attendibile, ci sono appena 14mila e 200 alveari, con una densità di 0,7 per chilometro quadrato, rispetto alla media nazionale di 3 alveari e mezzo». Ciliege in pericolo. Ma anche angurie, cetrioli, zucche e tutte quelle varietà che hanno bisogno dell’impollinazione: un terzo delle coltivazioni da cui dipende la nostra alimentazione è legato al lavoro del prezioso insetto. La morìa di api si aggiunge ad un’altra catastrofe. Il flagello Varroa (un acaro parassita arrivato dall’Asia) che tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, ha di fatto azzerato l’apicoltura pugliese, e non solo, praticata specialmente nel Salento e sul Gargano. La prova arriva dal fatto che oggi s’importa il 50 per cento del miele consumato. Eppure le api “made in Puglia” hanno sviluppato caratteristiche particolari. Tant’è che dagli Stati Uniti è arrivata una task force d’esperti con una missione ben precisa. Portare al di là dell’Oceano, in Louisiana, il seme dei maschi per rinsanguare le api americane alle prese con la deriva genetica. Come limitare i danni del collasso delle colonie di api pugliesi? Monaco un’idea l’ha: «Serve una legge regionale ad hoc. D’altra parte siamo l’unica regione d’Italia a non averla». Il professore nel 1985 si era dedicato anima e corpo a mettere nero su bianco la legge 61. Approvata, naturalmente. Quello che la politica non ha mai sdoganato, invece, è stato il regolamento di attuazione. Morale? Lavoro inutile. «Oggi - dice Monaco - la regione si limita ad erogare contributi a pioggia a chi presenta domande per acquistare api e attrezzature. Parliamo di 40/50mila euro. Un dispositivo legislativo efficace, invece, dovrebbe innanzitutto prevedere la disciplina dell’impiego di fitofarmaci ». Insomma, meglio fornire assistenza tecnica e sanitaria. Gli apicoltori pugliesi professionisti sono un centinaio. Che diventano 400 se aggiungiamo quanti considerano l’apicoltura come un hobby. L’intenso sviluppo agricolo rappresenta un altro ostacolo all’attività apistica. In alcune zone (Tavoliere, Nord barese e parte del Brindisino) l’apicoltura, infatti, è completamente assente, sia per la totale eliminazione della flora spontanea, sia per l’impiego massiccio e generalizzato delle sostanze chimiche. Della vicenda si sta interessando anche il Wwf. Pasquale Salvemini è il presidente regionale: «La legge da promuovere è a costo zero. Siamo la Cenerentola d’Italia in questo settore: assurdo. La biodiversità deve rappresentare una risorsa da valorizzare». Poi, c’è la querelle, tutta barese, sul recupero delle famiglie di api in città. Un compito delegato all’Amiu, l’azienda di nettezza urbana, al posto dell’Ausl, istituzionalmente preposta a risolvere il problema per quanto attiene gli spazi pubblici. Il professor Monaco, con la sua esperienza decennale, è stato praticamente ignorato. Nonostante ogni anno arrivino una quarantina di segnalazioni dal capoluogo, che superano le 100 in tutta la provincia. «L’intervento non deve essere distruttivo - racconta il cacciatore di api - perché questi insetti possono essere recuperati e utilizzati nuovamente. Purtroppo in ambito privato ciascuno provvede in proprio, spesso bruciando le api». Il modus operandi è semplice. Si ricorre al tradizionale sacco di tela grezza per avvolgere il favo. E il gioco è fatto. «A questo proposito - continua Pasquale Salvemini - i volontari del Wwf offrono disponibilità e collaborazione per intervenire con gli enti preposti per intervenire in caso di necessità». |
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(by La Gazzetta del Mezzogiorno) | |