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 Varroa
Quale il futuro della lotta alla varroa?
 
di Marco Valentini
 
Ci stiamo avvicinando a grandi passi verso l’infausto anniversario dei trent’anni dall’entrata ufficiale della varroa in Italia. Insomma, nulla da festeggiare, purtroppo. Come che sia non è proprio il caso di “gettare la spugna”, e visto che sono abbastanza anziano per aver vissuto, sulla mia pelle, tutto il percorso evolutivo del terribile acaro, la mia esperienza può essere utile per comprendere che cosa è cambiato in tutti questi anni e cercare di capire che cosa ci riserva il futuro. Proviamo a vederlo, ricordando che dobbiamo cercare un rapporto con l’ape
 
Lotta chimica

La prima cosa che abbiamo fatto per cercare di arginare la varroa è stato quello di aggredirla con le armi più potenti che avevamo a disposizione. All’epoca un altro acaro colpiva di tanto in tanto i nostri alveari ed era l’Acarapis woodi: per il suo controllo gli apicoltori si affidavano o al Folbex o al più naturale mentolo. E con tali mezzi, era logico avvenisse, si provò ad arginare anche la varroa, ma senza successo. La ragione? Si capì subito che il nemico aveva ben altra caratura del più gentile agente dell’acariosi.
Il Folbex fu tramutato, allora, nel ben più potente “Folbex VA” che fu presto abbandonato. Le accuse? Soprattutto due. In primis, perché molto costoso e di complicata applicazione: si dovevano bruciare due strisce di carta all’interno dell’alveare, poi perché il suo principio attivo - il bromopropilato - era imputato di inquinare pesantemente i prodotti dell’alveare, soprattutto la cera. Gli apicoltori professionisti (ovvero quelli che devono far quadrare i conti: con le api ci vivono), completamente disorientati e impreparati sul da farsi, sperimentavano, comprensibilmente ogni possibile arma di “distruzione di massa” (in quegli anni si provò veramente di tutto); intanto, alcuni apicoltori amatoriali, o che avevano a cuore l’apicoltura biologica (in quegli anni eravamo rari come le mosche bianche), si rivolgevano a molecole più soft e che originavano meno dubbi sulla possibilità di lasciare residui nei prodotti delle api quali gli acidi organici formico e lattico e il timolo.

Una selezione al contrario

Nel frattempo, anche la varroa ha messo l’elmetto e si è difesa come ha potuto dalle potenti bordate che le arrivavano da ogni parte. Con che risultati? All’inizio sembrava, con l’arrivo dell’Apistan, che stesse per capitolare. Illusione. E’ stato proprio allora che ha sferrato il suo più potente attacco agli apicoltori riuscendo a diventare, in solo due o tre anni, resistente al suo principio attivo.
Ecco il preciso momento in cui gli apicoltori (qualcuno perse anche il 70% dei propri alveari) capirono che la guerra con la varroa non l’avrebbero mai vinta e così persero la fiducia cieca che avevano posto sulla lotta chimica. E non erano cero fantasie, le loro. Pensavano: «Come era divenuta resistente al fluvalinate, sarebbe potuta diventare resistente a qualsiasi altro principio attivo» come poi si è verificato. Chi ha utilizzato i principi attivi di origine naturale ha un po’ mitigato l’effetto negativo insito nelle molecole di sintesi chimica. Ma attenzione, solo mitigato visto che la varroa può - e così è stato - diventare resistente anche alla modalità di somministrazione di un prodotto. Qualche doverosa riflessione. La perdita di efficacia del timolo - e delle formulazioni che lo contengono -, che gli apicoltori lamentano negli ultimi tre anni, probabilmente non dipende da fenomeni di farmaco-resistenza vera e propria.
Verosimilmente, il problema principale sta nell’uso della molecola attiva in presenza di covata. Infatti, il prodotto acaricida che la contiene non riesce ad essere efficace per tutta la durata del tempo che rimane nell’alveare, e ciò seleziona varroe che hanno un periodo foretico (ovvero il tempo che le varroe, tra un ciclo di sviluppo ed il seguente, rimangono sulle api e, quindi, sono esposte alle molecole attive) molto corto.
Ma non è finita qui. E ne illustro il motivo. Proprio per i continui trattamenti effettuati nel tentativo di tenere sotto controllo la varroa, gli apicoltori hanno involontariamente aumentato la sua fecondità. La prova? Se all’inizio il controllo della varroa, seppure difficile perché l’acaro non era assolutamente conosciuto ne dagli apicoltori e poco anche dai ricercatori, poteva essere eseguito ad ottobre, man mano che passavano gli anni, è stato necessario anticipare i trattamenti sempre più, fino ad arrivare ai giorni nostri nei quali è improponibile procrastinare l’intervento oltre metà agosto. Sembra abbastanza evidente che i trattamenti siano riusciti nell’intento di selezionare le varroe, checché ne dicano alcuni apicoltori e anche qualche ricercatore.

L'impatto sui prodotti delle api

L’altro effetto negativo dei trattamenti con acaricidi (un po’ mitigato da coloro che utilizzano principi attivi di origine naturale) è l’inquinamento dei prodotti dell’alveare.
Il fenomeno non è solo un problema per i clienti degli apicoltori che si alimentano o usano miele, polline, propoli, cera e pappa reale, ma lo è ancor di più per le stesse api che sono costrette a vivere in un ambiente contaminato e ad alimentarsi di cibi anch’essi inquinati. E questo sia perché le api sono insetti e, di fatto, molto più vicine di noi, dal punto di vista evolutivo e biologico, alla varroa sia perché sono molto piccole e quindi assai più suscettibili di noi alla tossicità dei residui dei principi attivi.
Pensate voi quanto deve essere difficile per un’ape completare il ciclo di sviluppo in una celletta avvolta da residui di ogni tipo, soprattutto quando compie il passaggio dallo stadio di uovo a quello di larva il cui peso, in origine, non raggiunge il milligrammo. Tirando le somme, in trent’anni di lotta senza quartiere alla varroa abbiamo ottenuto:
1) l’induzione della farmaco resistenza, compresa quella alla modalità di somministrazione del principio attivo;
2) l’aumento della fertilità della varroa con la conseguente anticipazione dei trattamenti di controllo;
3) l’aumento della sua aggressività (ovvero i danni che riesce ad arrecare alle api rapportato alla loro popolazione);
4) l’inquinamento dei prodotti dell’alveare, che seppure insignificante per le persone che li vogliono utilizzare non lo è altrettanto per le api.
Quello che è peggio è che, purtroppo, non solo non siamo riusciti a risolvere il problema, ma neppure a tenerlo sotto controllo.

E le api?

Nel frattempo, avendo avuto una fiducia cieca nella guerra contro la varroa che stavamo conducendo, abbiamo eliminato quest’incombenza alle api impedendo loro di trovare, da sole, la strada più confacente alla risoluzione del problema e, anzi, abbiamo continuato a selezionarle solo rispetto ai caratteri utili ad una maggiore produzione.
Se è vero che ora le api producono molto più miele, polline e pappa reale, ma anche covata e perdipiù sono più docili, non abbiamo mai pensato se questo fosse controproducente - considerate che pacchia per le varroe avere più covata a disposizione per il loro ciclo di sviluppo! - per arrivare all’auspicabile convivenza ospite/parassita che, ne sono certo, anche l’ape desidererebbe. Eppoi, con l’avvento della varroa sono scomparse le api selvatiche che mitigavano i nostri errori di selezione con l’introduzione nelle api allevate di geni “più rustici” portati dai fuchi  nati in alveari naturali o dalle regine degli sciami vaganti catturati dagli apicoltori. A peggiorare il quadro, ora esposto, dobbiamo includere anche una cresciuta aggressività dei virus che fino a una ventina di anni fa erano pressoché sconosciuti agli apicoltori (a parte qualche caso di covata a sacco), nonché di alcune - altre - patologie, anche se non sempre imputabili alla varroa ma alla importazione, favorita dagli apicoltori, di microrganismi da altre parti del mondo come nel caso del Nosema ceranae.

Il futuro

Se l’analisi che è stata appena fatta è corretta (e chiedo agli apicoltori di intervenire sul tema, manifestando i loro dubbi e perplessità) è chiaro che di errori ne sono stati fatti e un po’ da tutte le categorie che hanno a che fare con l’allevamento delle api. A cominciare dai ricercatori che non hanno avvertito, in tempo, gli apicoltori, pur conoscendola perfettamente, della strada che l’evoluzione ospite parassita avrebbe preso in presenza di interventi di controllo.
Purtroppo, noi apicoltori, pur allevando le api per quasi trent’anni con il problema varroa tra i piedi, non abbiamo visto il vicolo cieco in cui ci siamo andati a ficcare. In ultimo, ci sono gli organi dello Stato che per competenza hanno il compito di salvaguardare il patrimonio apistico nazionale e, quindi, anche il servizio veterinario, che pensano ancora di risolvere il problema col divieto di allevare le api in bugni rustici (dove più facilmente è possibile che si evidenzi una tolleranza delle api alla varroa) e con trattamenti obbligatori che cancellano tutte le differenze di suscettibilità alla varroa tra colonie di api.
Alla lotta chimica alla varroa, oramai, non ci crede più nessuno: non ci credono i ricercatori di tutto il mondo e lo dimostra il fatto che al Congresso internazionale di Apimondia, in Francia, (ma anche alla prima Conferenza internazionale sull’Apicoltura biologica tenutasi recentemente in Bulgaria) non hanno presentato (forse neppure ci studiano) nessuna relazione su nuove molecole di sintesi chimica efficaci contro la varroa.
Non ci credono, in cuor loro, neppure gli apicoltori che hanno patito sulle loro spalle anni e anni di interventi che di primo acchito promettevano di risolvere definitivamente il problema e che, a conti fatti, hanno lasciato alle spalle più fallimenti che successi. Invece, sembrano crederci solo i servizi veterinari, ma solo per il fatto che, con i ben più grossi problemi che hanno con gli allevamenti maggiori (bovini, suini, ovi-caprini, ecc.), cercano di risolvere il problema per via normativa (praticamente, lavandosene le mani).
Gli effetti? Non è facile prevederli.
Intervenire sulla relazione ape-varroa.
La lotta chimica è fallita, in fondo, perché abbiamo voluto frapporci (intendiamoci, all’inizio era la sola cosa che potevamo fare) tra i due litiganti. È stata una guerra tra apicoltori e varroa più che, come avrebbe dovuto essere, tra ape e varroa. Ora, se non vogliamo che la guerra alla varroa si trasformi nel nostro Vietnam, dobbiamo smetterla di focalizzare l’attenzione solo sull’acaro, trasferendola sulla relazione ape-varroa, in modo che si evolva in maniera più favorevole e rapida per l’ape. E’ proprio questo  il nostro unico compito.
Tutto ciò non lo dico io visto che per anni ho condiviso gli stessi errori di tutta la categoria, pur allevando le mie api con il metodo biologico. Lo afferma, invece, la ricerca scientifica che prende in esame la sopravvivenza delle api in presenza di varroa. Non a caso a Montpellier, al già citato Congresso internazionale di Apimondia, mentre non si è vista nessuna relazione su nuove molecole attive contro l’acaro ne ha presentate, di contro, più di una decina sul tema delle api resistenti alla varroa.
Che cosa ci dicono le relazioni?Ci dicono che la strada non solo è percorribile ma già sta dando dei risultati positivi in allevamenti da reddito (http://www.apimondia.org/2009/bee-health/symposia/Practical%20varroa%20resistance%20selection%20for%20beekeepers%20-%20KEFUSS%20John.pdf).
Naturalmente, come evidenzia anche Ingemar Fries, del Dipartimento di Entomologia dell’Università di Scienze Agronomiche di Uppsala, in Svezia, nella sua relazione alla conferenza sull’apicoltura Biologica in Bulgaria (vedi servizio a pag. 13), è impensabile che gli apicoltori possano, dall’oggi al domani, smettere di eseguire i trattamenti contro la varroa; ma possono, però, valutare gli effetti dell’intervento acaricida e selezionare gli alveari nei quali la caduta di varroa (o il tasso di infestazione sulle api adulte, di questo semmai ne parleremo in un prossimo articolo), è molto basso. Negli altri dovrà essere eliminata la regina (portatrice dei geni della suscettibilità e madre di fuchi con la stessa caratteristica genetica) e sostituita con la figlia di una che ha mostrato una certa resistenza.
È un lavoro lungo e laborioso che probabilmente non tutti gli apicoltori saranno in grado di portare avanti.
Il compito spetterebbe agli allevatori di regine che però devono, contemporaneamente, avere ben presente anche i problemi relativi alla biodiversità, a supplire mettendo in commercio api regine che sappiano diminuire, per carattere genico, la fertilità della varroa.
So per certo che già nell’indifferenza, se non nella derisione dei più, ci sono apicoltori che per motivi vari non eseguono trattamenti ai loro alveari, pur non arrivando alla totale perdita delle loro colonie.
Recentemente, ho visitato uno di questi apiari e la situazione, seppure non idilliaca, non era grave.
Anch’io ho sottomano le cadute di varroe su almeno un centinaio di alveari che evidenziano qualche caratteristica interessante.
Nella mia stretta cerchia di conoscenze ci sono già alcuni apicoltori interessati, compreso un allevatore di regine e spero che molti ancora, dopo aver letto questo articolo, si uniranno a noi.
Il mio indirizzo di posta elettronica,  lo conoscete (bioapi@tin.it).
Nel futuro, inoltre, dobbiamo smettere di vedere la varroa come un nemico da combattere: dobbiamo fare la pace con l’acaro.
Mi spiego meglio, ci dovremmo tirar fuori dal complesso rapporto ospite-parassita e comportarci più come mediatori di pace che come parti in causa; e questo per incoraggiare un accordo duraturo tra api e varroa: l’unico che può portare ad una convivenza serena per tutti, soprattutto per noi apicoltori.
 
 
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Scritto in data 05/11/2010 da Marco Valentini
 
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