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 Ambiente
LA STORIA DEL MIELE
 
di Unione Nazionale Consumatori - Anno XXXII – n. 5722
 
Quando il re Umberto I firmò il regio decreto n. 7045 del 1890 che, fra l’altro, si occupava anche del miele, non immaginava neanche lontanamente come sarebbe andata a finire. Essendo dato per scontato che cosa fosse il miele, il regio decreto si limitava a stabilire che non doveva essere “nocivo o sofisticato con acqua, zucchero di fecola, melasse, destrina o saccarina”. Molto più tardi, la legge n. 753 del 1982 ne diede una definizione: “ Per miele si intende il prodotto alimentare che le api domestiche producono dal nettare dei fiori o da secrezioni di parti vive di piante”.
 
Più tardi la UE, alla quale non va mai bene niente, cambiò ancora la definizione, in più fece altre modifiche che ora sono valide in tutta Europa. Ma il miele italiano è di gran lunga il migliore, grazie alla maggiore ricchezza della flora. Ve ne sono più di 30 tipi prodotti dagli apicoltori nazionali. Il più diffuso è il “millefiori” (così chiamato perché le api succhiano il nettare da più fiori),  prodotto da circa il 70 per cento delle piccole, medie e grandi aziende, seguito dal miele di acacia, di castagno e di agrumi. Abbastanza diffusi sono anche i mieli di eucalipto, girasole e tiglio, più rari quelli di corbezzolo, salvia, prugnolo, mandorlo, ciliegio, nespolo, lavanda, rosmarino, eccetera.
In tempi passati il miele godeva di una stima particolare perché si credeva che avesse virtù terapeutiche, come l’acqua di certe fonti “sante”. Tale stima è durata fino a tempi relativamente recenti, tanto è vero che con una sentenza del 1965, oggi irripetibile, la Corte di cassazione assolse un produttore che vendeva un miele “medicinale”, con la motivazione che il miele è “sostanza avente notoriamente qualità ed effetti medicinali”. Del resto, nelle ricorrenti notizie e cronache, vere o false, sull’esistenza di persone ultracentenarie, specialmente nel Caucaso, non mancava mai il riferimento a un’alimentazione a base di miele, sana, sobria e genuina. Che il miele sia un prodotto genuino, se consumato così come fatto dalle api, è indiscutibile, anzi è uno dei pochissimi prodotti genuini che siano rimasti, insieme alle castagne, ai frutti di bosco, ai pesci del mare e a qualche altro alimento, se per genuino si intende un prodotto fatto soltanto dalla natura senza alcun intervento correttivo dell’uomo. Quanto alle virtù terapeutiche, non si può dire che ne abbia più del latte o dell’insalata, essendo sostanzialmente un agglomerato di zuccheri sia pure molto digeribili, magari più adatto dello zucchero per certe patologie e con una certa dose di quegli oligoelementi che sono indispensabili per far funzionare gli enzimi che sovrintendono alla regolazione e all’attivazione dei processi fisiologici dell’organismo.
Con l’industrializzazione alimentare arrivò nei negozi e al consumo un altro tipo di miele, un po’ diverso da quello genuino. In Argentina, in Cina e nell’est europeo il miele costava meno della metà di quello nazionale e gli industriali confezionatori scoprirono che era più conveniente importarlo da quei Paesi. Anche se si trattava di un prodotto vecchio, igienicamente inaffidabile e soggetto ad alterazioni, bastava riscaldarlo ad una certa temperatura e venderlo così al consumatore, che non ne distingueva la qualità. In diversi casi era un prodotto dubbio e, fino a trent’anni fa, i laboratori doganali non erano neanche provvisti degli spettri pollinici necessari per verificare se si trattava di miele o di una miscela fraudolenta con sciroppo di mais. Gli apicoltori nazionali, che in genere producevano miele genuino non trattato termicamente, si trovarono quasi fuori mercato perché non esisteva una distinzione di qualità fra i due tipi di miele e meno che mai ne sapeva qualche cosa il consumatore.
Stranamente, anche la CE ignorò la questione quando emanò la Direttiva sulla produzione e commercializzazione del miele, ma nel 1982 gli apicoltori nazionali riuscirono ad ottenere che, nella legge di attuazione della Direttiva, fossero previsti due tipi di miele: quello denominato semplicemente “miele” che era il prodotto pastorizzato di qualunque provenienza, e quello denominato “miele vergine integrale”, che era il prodotto nazionale, tradizionale e genuino, non manipolato e rispondente a precisi requisiti chimico-fisici da stabilire con un decreto ministeriale. Si trattava di una classificazione nuova, sconosciuta alle altre legislazioni estere, che consentiva al consumatore di capire la differenza e che incontrò le ostilità degli importatori della stessa CE. Ne seguì una lunga e sotterranea guerra, anche perché il Ministero dell’Industria non emanò mai il decreto sui requisiti del miele vergine integrale, che per tale motivo restò una denominazione un po’ abusiva e molti produttori furono anche multati. L’incongruenza normativa stava nel fatto che una legge nazionale non poteva mettere una barriera ai prodotti europei consentendo questa denominazione solo al miele italiano e, infatti, con la legge comunitaria 1990, dopo le reprimende della CE, si mise riparo estendendo la denominazione anche ai mieli europei che, beninteso, possono essere importati sfusi ed etichettati da un confezionatore italiano.
Questo è stato un primo “regalo” della nuova classificazione distintiva, fatto dall’Italia agli altri mieli comunitari, ma non era finita, perché la Cina, l’Argentina e la Romania, per esempio, non facevano parte della CE e gli importatori industriali, per usare la denominazione, dovevano ricorrere a macchinose “triangolazioni” commerciali, facendo transitare il miele per la Germania in modo che, sulla carta, apparisse come miele comunitario. Per evitare questi fastidi, nella legge sull’etichettatura alimentare del 1992 fu introdotto un altro aggiornamento normativo che consentiva di usare la denominazione “miele vergine integrale” anche a quello non europeo.
Senonchè con la legge n. 128/1998 sparisce del tutto il miele vergine integrale, in quanto viene abrogata la norma che affidava al Ministero dell’Industria il compito di stabilirne le caratteristiche. Per l’ennesima volta fu cambiata anche l’etichettatura (non si sa quante norme ha avuto il miele):  il miele extracomunitario, se miscelato con miele comunitario, doveva riportare la dicitura “miscela con miele extracomunitario”. Naturalmente non era ancora finita, poiché la Direttiva CE n. 2001/110 rimise mano alla materia con una norma che imponeva l’indicazione del Paese d’origine in cui il miele era stato raccolto. Apparentemente, la CE aveva fatto contenti i consumatori, che così sapevano se il miele veniva dalla Cina o da altri Paesi del terzo mondo dove è di qualità scadente. Ma intanto la Direttiva aveva dato agli importatori una prima scappatoia, poiché bastava aggiungere un grammo di miele italiano a una tonnellata di miele cinese per sostituire l’indicazione del Paese di provenienza con la dizione “miscela di mieli originari e non originari della CE”. Dapprima il decreto legislativo n. 179/2004 aveva recepito la Direttiva, stabilendo che l’indicazione del Paese o dei Paesi d’origine in cui il miele è stato raccolto può essere sostituita da un’indicazione piuttosto generica. Poi la legge n. 81/2006 ha ripristinato la vecchia norma stabilendo semplicemente che sull’etichetta devono essere indicati il Paese o i Paesi d’origine in cui il miele è stato raccolto. Ma non era finita  con i regali agli importatori. La nuova Direttiva CE ha introdotto un altro tipo, il “miele filtrato”, definito come quello “ottenuto eliminando sostanze organiche o inorganiche estranee, in modo da avere come risultato un’eliminazione significativa dei pollini”. La definizione è un capolavoro di furbizia perché in realtà chi ha voluto questa norma aveva in testa i pollini e non le sostanze organiche e inorganiche. Infatti, il miele diventa filtrato in quanto privato dei pollini dopo essere stato filtrato da una membrana con pori piccolissimi (ormai la microfiltrazione è di moda). Praticamente è un miele denaturato perché ridotto a uno zucchero fluido e dura anche di più perché la microfiltrazione trattiene i lieviti responsabili della fermentazione. Ma il regalo agli importatori è doppio perché la scomparsa dei pollini rende il miele un oggetto misterioso. Dall’analisi dei pollini, infatti, si riconosce non solo l’origine floreale, ma anche la provenienza del miele: se scompaiono, con un’opportuna miscelazione potrà essere dichiarato miele italiano anche un miele cinese, anzi potrà essere aggirata la disposizione della stessa Direttiva che prevede l’obbligo di dichiarare in etichetta “miele filtrato”. Quindi è più di un regalo agli importatori di miele scadente.

Unione Nazionale Consumatori
 
 
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Scritto in data 05/02/2009 da Unione Nazionale Consumatori - Anno XXXII – n. 5722
 
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