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Quali fattori condizionano la disponibilità di polline (proteine) per l'alveare?
 
di Luca Tufano, Gianni Savorelli, David Baracchi*
 
Ecco un lavoro che merita di essere letto più volte e metabolizzato. In apicoltura comprendere, a fondo, certi meccanismi permette di assicurare una buona salute all’alveare e di consentire alle api una maggiore resistenza nei confronti delle patologie che le aggrediscono. Tanti nemici, ormai non più invisibili, che stanno intaccando gli alveari italiani
 
La disponibilità di polline (che potremmo tradurre in disponibilità di cibo proteico per l’alveare), intesa da un punto di vista quanti/qualitativo può essere scarsa per motivi climatici (semplificando, pioggia o siccità possono condizionarne disponibilità e raccolta); per motivi legati all’agricoltura e alla gestione dell’ambiente (possono esserci grandi quantità di polline in situazioni di monocoltura, ma di qualità nutrizionale insufficiente, tipo mais e girasole) e in un certo numero di casi può esserlo per decisione dell’apicoltore.
Benché la scarsa disponibilità di polline (ma si continui a leggere scarso apporto proteico all’alveare) possa dipendere anche solo da uno di questi tre fattori (clima, agricoltura, apicoltura), è bene dire che sul campo vi è, assai frequentemente, la combinazione di questi fattori. Fattori che agiscono, sovente, contemporaneamente o in rapida successione, impattando in modo non trascurabile sulla condizione complessiva della colonia.
Piogge eccessive e protratte per lunghi periodi in primavera o siccità eccessiva in estate, tendenze climatiche alle quali siamo sempre più abituati, per effetto di una estremizzazione del clima (tropicizzazzione o desertificazione), comportano una drastica riduzione dei voli di bottinamento in quei periodi che, in condizioni di “normale clima temperato”, avremmo ritenuto ottimali per i raccolti. A questo dobbiamo aggiungere che spesso il contesto all’interno del quale si trovano gli alveari è agricolo, e pertanto incide significativamente la presenza delle monocolture che, nelle ipotesi migliori, sono di specie botaniche con pollini a basso o incompleto contenuto nutrizionale (di nuovo si cita il mais povero di istidina e il girasole povero di metionina e triptofano, aminoacidi). Probabilmente, nel caso di questi ultimi pollini basterebbe un’integrazione di aminoacidi, istidina o di metionina e triptofano nel mais e nel girasole rispettivamente, per ottenere risultati suddisfacenti. Tuttavia, rispetto al polline, è fondamentale porsi più ancora che della sua quantità, il problema della sua qualità, e ricordare che quest’ultima (ai fini nutrizionali) deriva fondamentalmente da condizioni di polifloralità. Data la variabilità e molteplicità dei valori nutrizionali di ciascun tipo di polline, i dati nutrizionali non devono essere considerati prendendo in esame un singolo valore, ma considerando i valori nell’insieme. La presenza di monocolture, a prescindere dal fatto che sono spesso caratterizzate da pollini a non ottimale contenuto nutrizionale, comporta un pascolo non idoneo allo sviluppo “armonioso” dell’alveare in quanto monoflorale. In questi casi, pur in presenza di soddisfacenti raccolti nettariferi, avremo comunque delle carenze proteiche che limitano la dimensione della popolazione di api, la loro qualità e competenza immunitaria individuale e sociale. In Australia è tradizionalmente osservato che, in coincidenza con le onnipresenti e mastodontiche fioriture di eucaliptos, si riscontrano numerosi casi di covata calcificata, a dimostrazione di come la risposta immunitaria delle api richieda non solo quantità, quanto piuttosto qualità adeguata di polline (qualità garantita dalla varietà pollinica).
Tutto ciò ci conduce inevitabilmente alle pratiche apistiche, e notiamo, en passant, che per tutte le ragioni sin qui esposte, la ricerca forsennata di pascoli capaci di garantire all’apicoltore abbondanti raccolti di mieli monoflorali, se da un lato consente buone e immediate entrate economiche, in ragione della diversificazione dei prodotti apistici commercializzati; dall’altro non è molto vantaggioso rispetto alle ricadute che questa conduzione ha sul regime alimentare delle api e quindi sulla loro salute. Queste pratiche apistiche, indubbiamente, espongono le api a situazioni di stress che poi difficilmente saranno gestibili nei termini tradizionali.
Tra queste, presentiamo almeno tre tipologie di condizioni sfavorevoli all’apporto proteico riconducibili alle scelte dell’apicoltore. In primis, il pascolo inadeguato al carico di alveari - si legga per scelta nomadistica legata al raccolto di nettare, o per il numero degli apiari determinata arbitrariamente dall’apicoltore, il quale, ad oggi, non dispone di criteri oggettivi per la valutazione della potenzialità pollinifera; poi, la raccolta di polline; infine, il condizionamento o frazionamento dell’alveare (blocco di covata, asportazione di covata, formazione di nuclei).
Nel dettaglio, relativamente al pascolo inadeguato, ha di certo un legame diretto col contesto agricolo in cui immaginiamo il nostro apiario. Se le monocolture sono particolarmente sfavorevoli in quanto offrono alle api, indipendentemente dalla quantità, un polline “incompleto” in termini nutrizionali, vero è anche che, pur in assenza di monoculture, un pascolo può non presentare un potenziale pollinifero adeguato, specialmente laddove il numero di alveari sia sproporzionatamente elevato rispetto alla disponibilità di polline ceduta dal pascolo. Così, come un apicoltore ragiona sul pascolo in termini nettariferi e spesso sposta le api in presenza scarsa produzione di miele, allo stesso modo riteniamo che dovrebbe tener in forte considerazione la disponibilità di polline. Nessuno andrebbe a svolgere un lavoro che, ancor che ben remunerato, gli comporti una significativa riduzione dell’aspettativa di vita. Sembrerebbe, dunque, ragionevole non farlo fare ai propri alveari, soprattutto oggi che è stato dimostrato più volte come una carenza proteica condizioni la sopravvivenza di api e colonie.
Abbiamo accennato a ciò con riferimento alla raccolta di polline. L’aspetto è, a nostro avviso, non secondario e benché ci rendiamo conto che andiamo anche in questo caso in contrasto con una “moda”, molto in voga attualmente in Italia, Paese in cui si sta rivalutando la raccolta del polline, ci sentiamo in dovere di esprimere alcune valutazioni. Per quanto diverse e diversificate, più o meno regolabili, le trappole per il polline sottraggono mediamente alle bottinatrici la metà (a essere ottimisti a favore delle api) del polline che esse raccolgono. Il che significa che le api dovranno, nel caso della metà del prelievo da parte delle trappole, lavorare il doppio per soddisfare i bisogni dell’alveare, cosa che talvolta possono essere generosamente in grado di fare, ma talvolta no.
Quello che si vorrebbe sottolineare è che l’apicoltore attualmente non può che operare alla cieca, correndo il rischio di creare le primissime premesse per il collasso degli alveari, proprio per un effetto domino in cui le carenze alimentari, accumulandosi in un alveare, presto o tardi presenteranno il conto, specialmente in presenza di patologie. Ora, il messaggio non è che non si deve produrre polline, tutt’altro, ma che si dovrebbe trovare un modo per “pesare” quello che si sta facendo. Aggiungiamo che per lavorare il doppio, le api devono essere ovviamente in perfetta salute. Talvolta sono talmente indebolite dalle malattie (pensiamo al N. ceranae che letteralmente non le fa stare in piedi, anzi “in zampe”) da non poter fare un turno di lavoro normale, e noi con le trappoline per il polline richiediamo loro almeno due turni. In queste condizioni, le bottinatrici difficilmente reggeranno a lungo, e ciò non stupisce, se si riflette sul fatto che proprio il polline consente un’efficace risposta immunitaria (specialmente verso patologie come Nosema) come ben dimostrato da varie ricerche tra cui l’ultima di Corby e collaboratori. A questo aggiungiamo che, benché ormai esistano trappole da polline ben concepite almeno rispetto all’integrità fisica delle api, ci sono in commercio ancora molti strumenti dubbi, capaci di danneggiare il corpo delle bottinatrici. E una lesione cuticolare significa porte aperte per virus e maggiori rischi di infezione, venendo abbattuta la prima importante linea di difesa naturale: la cuticola.
Veniamo poi all’argomento più spinoso, ovvero alla questione del frazionamento dell’alveare o condizionamento della covata (vedi blocco di covata in primis). Come già abbiamo avuto modo di dire in altre occasioni, è importante lavorare “insieme” alle api, cioè nel rispetto della loro biologia. Per farlo, è necessario che questa biologia sia però conosciuta. Occorre avere il coraggio di dire, risultando impopolari, perché ogni lettore si risentirà, che - mediamente - quando interviene l’apicoltore non tiene conto del fattore nutrizionale proteico (polline) e neppure della variazione della generale capacità di bottinamento che va ad alterare il ciclo naturale ordinario dell’alveare, producendo scompensi che poi le api devono gestire, a scapito delle loro riserve interne. Questo tipo di manovre non può essere privo di conseguenze, e se si riflette sul valore che il polline ha nella costituzione delle competenze immunitarie di un alveare, e di tutto quello mostrato da Corby e collaboratori, ci si rende conto di quanto una famiglia d’api, varroasi a parte, possa diventare più vulnerabile a svariate altre patologie, come N. ceranae e virus, al diminuire delle risorse proteiche. L’indisponibilità di polline dovuta a mutilazione della capacità di bottinamento, comporta una susseguente diminuzione quantitativa della popolazione dell’alveare, una generale diminuzione qualitativa di ciascuna ape, nonché una diminuzione dell’immunità individuale e sociale da aggiungere a modificazioni comportamentali. Vi è l’abitudine di cacciare tre favi di api in un cassettino e regalare un po’ di zuccheri. Ma la capacità di andare avanti dei nuovi nuclei dipende, a quel punto, dall’impiego delle riserve interne, ovvero da quanto erano “grasse” al momento della “scissione”.
Per converso, nell’alveare la raccolta del polline parte in buona sostanza dagli stimoli prodotti dai feromoni della covata e da quelli della regina.
Imprigionare la regina per impedire l’allevamento di covata porta, invariabilmente, alla quasi sospensione della raccolta di polline (molti penseranno che la quantità che vedono sui favi basti per chissà quanto, mentre è più che altro la dispensa dei batteri necessari a fare il pane d’api - all’alveare servono almeno 50 Kg di polline a stagione, raccolto giornalmente e trasformato in proteine di stoccaggio nel corpo delle api) e ciò conduce, inevitabilmente, agli effetti sulle api determinati da Corby e colleghi.
Una buona alternativa avrebbe potuto essere l’inserimento e la rimozione dei telaietti per la produzione dei fuchi, ma alla lunga non può che portare alla selezione di varroe che non mostrano più preferenza verso covata maschile. La capacità di detossificazione degli acaricidi (associata alla mancanza di proteine/polline prodotta dal blocco di covata) è minore e da ciò deriva un potenziale aumento della loro tossicità, con riduzione dell’aspettativa di vita dell'ape trattata, che, di contro, risulterà anche più sensibile ai famosi neonicotinoidi e altri fitofarmaci ormai accumulati nell’alverare, dopo una stagione di bottinatura. In aggiunta, il lavoro di Corby mostra chiaramente l’indebolimento della membrana peritrofica derivante dalla carenza proteica che è un “prego si accomodi” a Nosema e virus.
Verrebbe da dire che alla luce delle numerose recenti evidenze scientifiche che è ardita l’idea di privare di risorse nutrizionali essenziali l’alveare per quasi il 20% del periodo a lui utile, pensando così di fare terapia. Certamente, la Varroa rappesenta un problema enorme, ancora probabilmente “Il problema”, almeno per gli apicoltori, e se il non fare il blocco non permette di uccidere tutta la varroa, e questo sia peggio che avere una carenza di polline e tutto ciò che ne consegue, è una cosa che andrebbe studiata a fondo con un approccio razionale e sperimenale. Di sicuro, il blocco di per sé fa molti danni. E vale qui anche ricordare che colonie in buona salute spesso riescono a sopportare grandi quantità di varroa, suggerendo che dietro il collasso delle colonie non c’è mai un solo fattore. Naturalmente, gli stessi principi fondamentali che gravitano attorno al ruolo del polline, se ben compresi, si possono applicare anche ad altre tecniche di lotta integrata e bio-meccanica. Pensiamo, ad esempio, all’asportazione di covata o alla formazione di nuclei (il primo metodo è usato, ultimamente, in alternativa all’ingabbiamento della regina) che riducono le capacità di bottinamento di un alveare, asportando api o realizzando nuovi nuclei privi di bottinatrici. Questi nuclei saranno chiaramente incapaci di approvvigionarsi in modo ottimale, nutrire a sufficienza la covata e, di conseguenza, anche di difendersi efficacemente dall’aggressione dei patogeni. Si incide, comunque, anche in questo caso sull’importazione di proteine, e anche in questo caso api che sopravvivono nel breve periodo non stanno a indicare buona salute. Più probabilmente saranno stremate perché le poche bottinatrici hanno dovuto lavorare il doppio o il triplo per far fronte alla mancanza delle consorelle, colleghe.
Magari si sopravvive alla giornata, magari varroa ce ne sarà poca, ma tutto il resto? Abbiamo vista dai lavori ultimi di Prisco e colleghi che la Varroa fa paura, ma il DWV può essere tanto invisibile quanto pericoloso. Per usare una metafora rugbistica, si sacrifica mezza squadra per andare a fermare un portatore di palla, ma appena questo viene fermato e placcato, eccolo passare il pallone sui compagni liberi e pronti ad andare in meta.
 
 
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Spore di Nosema ceranae
 
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Scritto in data 23/07/2014 da Luca Tufano, Gianni Savorelli, David Baracchi*
*Dr. David Baracchi research activity is currently supported by a Marie Curie Intra European Fellowship within the 7th European Community Framework programme
 
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