Speciale Apicoltori - n. 551, dicembre 2005
Gli uomini dell'Apicoltura in Italia
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 • Francesco Bortot
Pensare "pulito" per salvare l'ape e l'ambiente
di Massimo Ilari & Alessandro Tarquinio
 
 CARTA DI IDENTITÁ
 nome  Francesco
 cognome  Bortot
 età  44
 regione  Veneto
 provincia  TV
 comune  Montebelluna
 nome azienda  Apicoltura Bortot
inizio attività  1988
arnie  600
 apicoltura  Nomade e Stanziale
tipo di api  Apis Mellifera Carnica
 tipo di miele  Acacia
Tiglio
Castagno
Millefiori
Tarassaco
 miele prodotto  0 quintali/anno
 
 • L'Intervista
 
Come ha iniziato l'attività di apicoltore?
E’ stata la naturale sintesi di un “genoma” familiare fatto di nonno e zii paterni, undici, tutti apicoltori, comprese le donne della famiglia. Come risultato, non si faceva che parlare d’api ogni volta che c’incontravamo tra parenti. Che barba! E cosi dalla manovella dello smielatore a piallare e segare telaini ed arnie d’inverno man mano la paura delle api si è trasformata in passione che mi ha accompagnato prima come hobbista, e poi, a partire dal 1988, più precisamente come imprenditore. Per la verità il tutto è passato anche e tanto per le mani di mamma, zia e fratelli, presenze fondamentali per avviare questa attività. Dal travaso del primo bugno ad ora di acqua sotto il ponte se ne è vista.
 
Per quali motivi ha iniziato?
Ho sempre amato la terra e la natura. Studiando agraria e girando le aziende agricole in Italia pensavo che non avrei mai potuto averne una mia, troppi i problemi, e tra i più grandi le infrastrutture e i notevoli capitali da approntare. Dovevo avere la possibilità di partire da zero. Grazie alle api questo è stato possibile. Con poco più di niente ora ho un lavoro onesto e dignitoso, il che non è poco. Nei miei anni di attività ho conosciuto Apicoltori con la “A” maiuscola che mi hanno aiutato moltissimo. E così grazie all’esperienza personale che andavo maturando e agli insegnamenti che mi sono arrivati dagli apicoltori più esperti ora mi sento di dare un consiglio anche ai giovani. Se lo accetteranno. Se volete intraprendere l’attività apistica una o due famiglie in giardino non guastano; riviste e libri sono indispensabili, ma fatevi dare due o tre stagioni da un apicoltore professionista: è fondamentale se volete apprendere questo lavoro. Attenzione però. Di passione ce ne deve essere proprio tanta: le api mettono sempre alla prova coraggio e determinazione e non c’è spazio per le mezze misure.
 
Pratica il nomadismo?
Ho provato a fare apicoltura stanziale, ma nella mia zona, nello specifico la collinare trevigiana, proprio non si può; troppi insediamenti agricoli e monoculture, troppi veleni e troppo poco rispetto per le api. Un mix, questo, ve lo assicuro, veramente micidiale per la sopravvivenza delle api. Per quanto riguarda il nomadismo lo esercito nella maniera più totale. E’ la salvezza per me e per tanti apicoltori. Sicuramente aumentano i costi e la fatica ma possono crescere anche le medie di produzione delle famiglie e le api sono più belle e più sane. Il nomadismo, fatto bene, è amico dell’apicoltura e dell’ambiente e questo lo capisce solo chi sa vedere le cose oltre il proprio orticello.
 
Cosa pensi del nomadismo?
pesso noi che spostiamo centinaia d’alveari fra un raccolto e l’altro siamo considerati con sospetto e fastidio dagli apicoltori stanziali che ci vedono ladri del loro nettare. Addirittura untori di chi sa quali malattie e infestazioni, come se fosse conveniente portare in giro alveari malati e improduttivi. E il nocciolo della questione è proprio qui: nomadista non è chi sposta alveari a caso sperando che le famiglie anche se malandate vadano in produzione, ma chi con la maestria e la destrezza propria del vero apicoltore sa portare le api in produzione sane e produttive, da una fioritura all’altra, per meglio ottimizzare le rese. La differenza sulla carta è sottile ma è abissale se si aprono gli alveari. Si sa che quando c’è nettare ce n’è per tutti, ma quando non c’è, credetemi, siamo i primi ad andarcene. Certo è bene farsi un’idea della zona dove andiamo a pascolare e verificare chi c’è e quanti apicoltori e alveari si trovano nell’area in questione. Il più delle volte è bene per capirsi e farsi conoscere: la collaborazione verrà da sé.
 
Problemi nella commercializzazione?
Certo la scelta di non usare antibiotici, fatta ormai venti anni fa, e la scelta di convertirmi al sistema biologico mi sta aiutando non poco in questo tempo di incertezza commerciale. Anche noi apicoltori dobbiamo adattarci a produrre quello che vuole il mercato: chi non intende farlo ha le ore contate.
 
Che difficoltà si incontrano nella sua zona?
Ormai tutta la pratica apistica è irta di difficoltà: il mercato, la varroa, le mancate produzioni, le varie burocrazie e per finire gli avvelenamenti, una piaga che si sta espandendo a macchia d’olio in Italia e all’estero. Le molecole tossiche, per come sono strutturate (microincapsulati) e distribuite (leggi atomizzatori a largo raggio, i cosiddetti “cannoni” aerei ed elicotteri), provocano danni letali ben al di sopra delle zone interessate. Le api muoiono inspiegabilmente in montagna, nei boschi, in colline incolte. Non si riesce a farsene un’idea. Qualche Apicoltore più anziano, però, ricorda che qualcosa di simile c’è stato già con l’Insegar, insetticida usato in frutticoltura in Trentino e Friuli, che demolì in poco tempo la bachicoltura veneta, a causa della deriva che avvelenava i gelsi a centinaia di chilometri di distanza. E si parla di vent’anni fa, altro che i cinesi. Speriamo che le api non servano da rilevatore ambientale solo da morte. Il nomadismo in Veneto si fa anche per sfuggire agli apicidi che da un giorno all’altro ti sconvolgono gli apiari. Un tempo soltanto i frutteti ci davano problemi ma ora ogni momento è buono. Si va dalla semina del mais (rigorosamente con Gaucho) ai sistemici primaverili sui vigneti, che qui sono inframmezzati ai boschi di Acacia, a costituire un mosaico mortale, per giungere agli insetticidi contro la cicalina della vite, contro il verme della castagna, la tignola del mais, agli afidi della medica, dei meloni, dei cocomeri, per finire con il verde pubblico e la zanzara tigre. Ormai non c’è più misura, ogni cosa che si muove deve essere abbattuta, distrutta, annientata e spesso se chiediamo chiarimenti agli operatori preposti non sanno neanche che cosa sia il parassita che stanno combattendo. Si fa e basta. Nei campi e nei boschi così non si sente più una mosca volare. Altro che polveri sottili (PM 10) questo è un avvelenamento legalizzato sull’ape e sull’ambiente e soprattutto sull’uomo.
 
Cosa si può fare per bloccare il fenomeno?
Già Domenico Porrini, venticinque anni fa, metteva gli avvelenamenti ai primi posti delle avversità in apicoltura. E oggi le cose non sono cambiate in meglio. Forse c’è più conoscenza, abbiamo in ogni modo dalla nostra parte istituti e istituzioni con persone autorevoli, capaci e appassionate, ma si muovono come possono e con fatica. La ragione è semplice, i giganti che hanno davanti sono piovre corazzate forti e inattaccabili. Come che sia, per quanto piccoli, tutti noi abbiamo il dovere di aiutarli e farci sentire. Collaborazione ce ne vuole tanta, da soli non possiamo farcela, contiamo poco economicamente sulla bilancia agricola italiana. Forse un po’ di più su quella ambientale, anche se di questo sembra non importi proprio a nessuno. E poi dobbiamo comunque ricordarci che senza peccato non siamo. Prima di sputare sentenze e lanciare invettive ricordiamoci che il nostro miele deve essere proprio pulito. Chi ha orecchie per ascoltare, intenda!
 
E’ importante il servizio d’impollinazione?
L’impollinazione che gradualmente sto riducendo mi ha permesso di conoscere le due facce della medaglia agricola. Quella costituita da operatori seri e preparati dove sei considerato un professionista e il tuo lavoro è stimato e quella invece composta di chi ti tratta poco meno alla stregua di un pezzente che si fa pagare il lavoro di quattro api e perciò da non rispettare minimamente, e parlo della maggioranza degli operatori agricoli nella mia zona.
 
Perché fa apicoltura biologica?
La scelta della conduzione degli alveari con il sistema “Bio” è stata una necessità richiesta dal mercato. Non è stato da poco cercare di pensare “pulito” in questo lavoro, anche se con i tempi che corrono credo che non basterà solo questo tipo di certificazione. E’ vero che si lavora un bel po’ di più sulla conversione, dopo, però, è un po’ più facile perché la gestione delle attrezzature (arnie, favi, api, cera) diventa, se così si può dire, “automatica”. Gli acaricidi, poi, contemplati nel disciplinare sono, in effetti, quelli che oggi più ci aiutano contro la varroasi: olii essenziali e acido ossalico.
 
Come lotta contro la varroa?
Sono ormai orientato verso l’acido ossalico sublimato, che posso cominciare a somministrare già da fine luglio grazie al primo blocco di covata che si effettua in montagna, a 1000/1500 metri, ove conduco e trasporto in questa stagione la totalità degli alveari. E’ un sistema veloce, economico e di sicura riuscita, che può essere somministrato più volte senza danno, riuscendo così ad abbattere la quasi totalità degli acari presenti sulle api. Per arrivare infatti ad una conduzione senza l’incubo della varroa è necessario avere una pulizia quasi perfetta dell’alveare e questo è proprio il vantaggio delle varie sublimazioni; a differenza dell’acido gocciolato che, d’inverno, può essere fatto solo una volta pena il rischio della distruzione della famiglia: e se c’è una rosellina di covata siamo daccapo. Qualcuno afferma che c’è accumulo nei favi e che con il passare del tempo le api ne soffriranno. Staremo a vedere, ma intanto è un buon motivo per cambiare qualche favo in più, e per gestire meglio le famiglie. Resta però ancora alto il rischio della reinfestazione autunno-primaverile sempre più diffusa di quello che si crede, e sempre comunque micidiale. Troppi alveari in giro! Troppe api mal tenute.
 
Cosa funziona nel mondo apistico?
Ci addentriamo in un campo minato dove dire qualcosa è rischioso e impopolare ma tant’è, visto che anche se è vero che la nuova legge quadro assicura che apicoltore è chiunque detenga alveari, non credo che tutti possano fregiarsi di tale titolo. Vige ancora troppa superficialità e pressappochismo nel governare le api, perché non sempre si capisce che quelle mantenute malate e infestate hanno ripercussioni negative per chilometri intorno a noi. Ormai le api sono come altri allevamenti: dobbiamo crescere e conoscerle sempre più a fondo. Quello che andava bene dieci o venti anni fa ora non fa più testo; troppo fai da te, troppo materiale biologico acquistato e venduto senza nessun controllo, senza il minimo buon senso; e sì che i mezzi ci sono!
 
Cosa non funziona nel mondo apistico?
Sicuramente molte cose. L’apicoltore “selvatico”, per natura e lavoro, raggiunge vette di solidarietà e voglia di crescere che altri settori devono solo invidiarci. Quella che a volte può sembrare scontrosità e diffidenza non è che timidezza, cautela, discrezione. Ma se proviamo a superarla, se facciamo il primo passo entriamo in un mondo meraviglioso, quasi fatato, pervaso di silenziosi ronzii nel verde dei boschi o nelle immense distese appenniniche. Mondo denso di orecchie tese al volo degli apiari, nasi all’insù a captare il primo profumo dei fiori, di gioiose sudate alla smielatura, di fenomenali guarigioni del mal di schiena, quando le api “chiamano” i melari. L’apicoltore è fatto di giorni interi sotto il sole spietato o notti insonni al volante dei camion. Tenaci, determinati. Pronti a risollevarsi di fronte a qualsiasi disastro. Solo così si spiega perché sia sopravvissuta l’apicoltura e le api da quando contro la varroa non c’era niente, ad ora che nessuno ci promette certezze per il futuro. L’apicoltura poi è fatta di tanta collaborazione tra grandi e piccoli, senza distinzione, di momenti costruttivi in cui attorno a un caffè o a un buon bicchiere di vino ci si scambia idee, impressioni e progetti. E quanta strada si può fare in questo modo!
 
Cosa rappresentano le Api per lei?
Le api per me sono questo: una sfida continua a conseguire sempre migliori risultati. Credo che le guarderò sempre cosi, con rispetto, delicatezza e sempre con un po’ di sorpresa. Perché ad ogni primavera insieme ai fiori sbocciano gli alveari ad insegnarci che nonostante tutto vale la pena di credere e lavorare per un domani migliore, al di là del prezzo e della fatica.
 
Utilizza particolari tecniche per migliorare il lavoro in apiario?
E’ proprio a proposito di fatica che si apre uno dei paragrafi più controversi del settore. Anche cercando di meccanizzare il più possibile il lavoro è pur sempre vero che le mani nelle arnie le dobbiamo mettere pur sempre noi: nel senso che raramente troviamo chi ci possa sostituire. L’apicoltura è così soggettiva che, di solito, neppure due apicoltori esperti possono lavorare insieme, adottando lo stesso sistema. Figurarsi reperire manodopera specializzata. Non si trova. E allora l’unica possibilità sta nell’agevolare il lavoro. Per quanto mi riguarda, sto cercando di standardizzare il più possibile arnie, melari e coprifavi, per semplificare la pallettizzazione degli alveari. Scelta che ho fatto organizzandomi con autocarro e gru idraulica: è meno duro il nomadismo che ormai mi faceva faticare non poco. Standardizzare non significa soltanto razionalizzare i materiali, significa anche lavorare con alveari di pari forza, con regine di pari vigoria, con scorte di pari consistenza, con operazioni specifiche condotte nello stesso momento. Può farci un esempio? Certo che sì. Una volta uscite dall’inverno le famiglie devono “camminare” con gli stessi tempi. Quando governo le api tendo a fare per tutte le stesse operazioni: oggi si nutre, poi si allarga con i favi, poi con i fogli; si livella, si mettono i melari, si spostano, si tolgono e così via. Questo è per me razionalizzare. Se la famiglia resta indietro, vuol dire che non va o per debolezza propria o perché è da cambiare, o ancora per tanti altri motivi. Va, però, “ripresa” e deve “viaggiare” così per conto suo, senza intralciare i lavori dell’apiario, dove è rimpiazzata con un’altra famiglia di pari forza. Sui pallet deve esserci solo la famiglia produttiva: non si corre per niente. Anche le api vanno a gasolio! Usare sempre le griglie escludiregina agevola non poco la raccolta dei melari che io eseguo con il soffiatore, tranne in casi particolari dove gli apiscambi sono indispensabili, anche se qui i melari bisogna alzarli due volte, fattore che non va sottovalutato. La cosa più importante delle griglie escludi regina è che non c’è più covata nei melari e ciò significa sveltire le operazioni di smielatura, visto che ormai la lavorazione è automatica dal melario allo smielatore.
 
Aspettative future della sua attività?
Sicuramente ridurre la fatica, semplificare il lavoro, spiegarlo ai miei figli. Chiarisco meglio. Non avrei mai fatto un lavoro bestiale se lo avessi visto fare da mio padre. Questo vorrei far vedere ai miei figli: la fatica c’è sicuramente ma è una fatica semplice, non distruttiva. Cerco di migliorare la qualità dell’apicoltura per migliorare la qualità della vita. Voglio aiutare le api a vivere in un mondo più pulito. Anche per noi!
 
Ci racconti un episodio particolare legato alla sua attività.
Una mia avventura particolare? Tutto il mondo delle api è zeppo di avventure particolari. Quella che voglio ricordare riguarda un viaggio cominciato all’una di notte, sopra uno scassatissimo Volkswagen a metano. Ero diretto nelle Marche dove avevo acquistato i miei primi cinquanta sciami. E’ stato un tuffo mozzafiato dall’hobbismo alla grande professionalità. Un tuffo che mi ha aperto gli occhi su questo mondo, e che mi ha convinto praticamente ad andare avanti. Un uomo, un apicoltore tutto in maiuscolo, ora scomparso, le cui parole mi accompagnano tutt’ora “Ce la puoi fare”, mi disse; avevo vent’anni e cinquanta cassettine sul furgone. Grazie Quinto!
 
 
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