Speciale Apicoltori - n. 599, aprile 2010
Gli uomini dell'Apicoltura in Italia
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 • Luciano Consegni
Una famiglia, la storia dell'apicoltura in Toscana
di Massimo Ilari, Alessandro Tarquinio
 
 CARTA DI IDENTITÁ
 nome  Luciano
 cognome  Consegni
 età  64
 regione  Toscana
 provincia  AR
 comune  Terranuova Bracciolini
 nome azienda  Apcoltura Consegni
inizio attività  1939
arnie  1700
 apicoltura  Nomade
tipo di api  Apis Mellifera Ligustica
 tipo di miele  Acacia
Millefiori
Castagno
Melata di abete
Sulla
Girasole
 miele prodotto  1200 quintali/anno
 
 • L'Intervista
 
Come ha iniziato la famiglia Consegni l’attività apistica?
Il babbo, siamo nel 1939-1940, ha cominciato con 30-40 famiglie di api e poi ha aumentato sempre secondo le sue possibilità, fino a che non siamo arrivati io e mio fratello, negli anni sessanta, a dargli una mano. E proprio a partire da lì c’è stata l’evoluzione dell’azienda. Il babbo, si chiamava Giocondo, aveva imparato a fare l’apicoltore, da ragazzino, grazie agli insegnamenti di un sacerdote che stava nella grande fattoria dei Renacci di proprietà dei principi Corsini. Il sacerdote già allora, negli anni ‘20-’25, aveva un centinaio di famiglie di api e il “mi babbo” facendo il chierichetto era riuscito a carpire alcuni segreti.
 
Che differenza c’è tra l’apicoltura di oggi e quella di una volta?
Come il giorno e la notte, anche dal punto di vista della fatica lavorativa. Prima il lavoro apistico era tutto manuale, addirittura si levava il miele a mano, si spostavano tutte le api a spalla, con una certa fatica, e anche il nomadismo era una pratica veramente pesante. Quando sono arrivati il camion e la gru, il mondo si è ribaltato. E così oggi possiamo praticare l’apicoltura quasi andando a spasso, sempre con fatica, ma non è di certo come una volta.
 
Per quali motivi avete scelto questa attività?
L’attività si è scelta perché ci ha instradato il babbo. In più, non c’erano all’epoca tante opportunità lavorative, così siamo rimati a lavorare in famiglia. Poi, vedendo che si riusciva a ricavare anche un discreto reddito siamo andati avanti.
 
Al di là del lavoro e dell’attività produttiva perché avete scelto l’ape?
Perché ci garbava e ci affascinava molto il suo mondo. Fin da piccolini eravamo molto attratti dall’ape, essendo praticamente cresciuti in una azienda apistica.
 
Che cosa vuol dire avere una passione per l’Ape?
Significa avere tante gioie e tanti dolori. Tra i dolori segnalo il rinunciare alle ferie estive, non guardare l’orologio, spesso si lavora dalle 14 alle 15 ore al giorno, la dura fatica, contrastare le malattie dell’alveare, solo per fare qualche esempio. Poi ci sono anche gli aspetti positivi, come il reddito e la soddisfazione di vedere che a partire dalla propria manualità si riesce a portare in fondo all’anno l’azienda.
 
Quali sono le difficoltà che si incontrano nella sua zona?
E’ soprattutto l’atteggiamento che hanno alcuni hobbisti che, non facendo bene il loro lavoro, riescono a danneggiare anche il nostro. Frequentemente, diffondono malattie e contagi perché lasciano le api incontrollate e normalmente ciò reca un grave danno a tutta la zona.
 
State dicendo che tutti gli hobbisti, non fanno bene il loro lavoro?
No, assolutamente. Non tutti, visto che ce ne sono anche di molto bravi.
 
Ma gli hobbisti rispetto all’apicoltura che funzione hanno? E’ pensabile una apicoltura fatta solo da professionisti?
Per fare questo mestiere ci vuole una certa professionalità e non si può pensare che dall’oggi al domani ci si inventi apicoltori. Con la superficialità si rischia di fare grossi danni all’apicoltura: se non si conoscono alla perfezioni i meccanismi che regolano l’apicoltura va a finire che, poi, quando ci si trova nei guai con la peste americana o europea si lasciano le famiglie a se stesse. Crescono le morie e il saccheggio è inevitabile. E non è tutto, dato che si trasmettono le malattie anche alle aziende circostanti.
 
Insomma, anche gli hobbisti dovrebbero essere preparati?
Certo, dovrebbero essere a conoscenza di quello che hanno tra le mani. Tutti i mestieri oggi hanno la loro professionalità, e non ci si può inventare di andare a fare un altro lavoro a caso. Non ci si può improvvisare, tant’è che io non mi posso permettere di andare a fare l’infermiere o il meccanico. In definitiva, credo che per svolgere il duro mestiere dell’apicoltore occorra, prima, acquisire tutte le nozioni basilari.
 
Secondo voi possono cooperare hobbisti e professionisti? E come?
Sì, ma stando alle regole e lavorando bene. Non siamo contro gli hobbisti, per carità: svolgono la loro funzione in modo eccellente quando possiedono le conoscenze del caso e sanno stare alle regole. Un apicoltore con una cassa o due può arrecare un danno enorme a me che ne ho un certo numero. Come? Portando le malattie. Pur non sapendo, ingenuamente, il danno che fa. Rimane, comunque, il fatto che per i professionisti questo rappresenta un grande problema. L’ape non è una gallina, vola e contagia sicuramente le altre casse, veicolando intorno le patologie che colpiscono l’alveare. In apicoltura c’è posto per tutti ma solo se si lavora in una certa maniera e con le dovute precauzioni.
 
Gli interventi sanitari di una volta in che cosa sono cambiati rispetto all’oggi?
La peste americana, la peste europea e il Nosema c’erano allora come oggi. Da quando ho cominciato a lavorare con il mio babbo, nel 1959, le malattie ci sono sempre state. Allora, però, tramite le università ci veniva accordato il consenso di effettuare certe pratiche che oggi non sono più ammissibili. Non c’era la varroa, che è la bestia nera dell’apicoltore, è la variabile che secondo noi sta distruggendo l’apicoltura. Purtroppo, non abbiamo a disposizione un prodotto adatto per curare l’ape. In apiario si danno dei prodotti che funzionano e non funzionano a seconda delle stagioni; delle temperature alle quali vengono adoperati; del ciclo della covata. In ogni caso, non si ha la sicurezza di utilizzare un prodotto ottimo.
 
In che percentuale incide la varroa sulla mortalità degli alveari?
Pesantemente. E’, senza dubbio, la prima causa di mortalità. E’ la calamità più grande che potesse capitare in apicoltura. C’è anche da dire che gli strumenti che abbiamo a disposizione per combatterla, purtroppo, non sono validi, non riescono ad effettuare una pulizia totale.
 
Che cosa dovrebbero fare le autorità preposte?
Sì, ci sono degli Istituti preposti alla tutela dell’ape ma, secondo noi, dovrebbero studiare più a fondo le problematiche che derivano dalla varroa. Dovrebbero riuscire a capire il suo meccanismo di riproduzione e individuare, una volta per tutte, come abbatterla. Io credo che sia stato fatto ben poco da parte di chi è preposto a risolvere questi problemi.
 
Problemi nella commercializzazione?
Problemi non ne abbiamo, anzi la produzione che si fa non è sufficiente.
 
Che problemi ci sono a praticare il nomadismo?
Non ci sono grossi problemi. Certo per fare nomadismo c’è bisogno di mezzi, di conoscenze del territorio, di saper valutare anche la resa mellifera delle fioriture.
 
Molti imputano ai nomadisti di lasciare degli alveari malati quindi di inquinare la zona?
Sono le cosiddette leggende metropolitane. Chi fa nomadismo di mestiere lo sa bene, è un controsenso portare gli alveari malati a spasso senza poi ricavarne niente. E’ un costo inutile portare su una fioritura un alveare malato. Si spostano sempre le famiglie più belle, per avere la miglior resa possibile.
 
L’apicoltore deve essere anche un esperto botanico?
Sicuramente. Occorre conoscere bene il periodo delle fioriture, conoscere la quantità di piante presenti per portare un’altrettanta quantità di alveari. L’obiettivo? Avere un raccolto pieno.
 
Che tipo di apicoltura pratica?
Un’apicoltura convenzionale. Una doverosa precisazione, per quanto ci riguarda non c’è differenza tra apicoltura convenzionale e biologica perché chi “fa il biologico” dovrebbe avere le api sotto una campana di vetro.
 
Si potrebbe obiettare che chi pratica il metodo biologico è più attento ai prodotti che si impiegano in alveare…
Noi in apiario utilizziamo soltanto i farmaci consentiti. Dunque, come interventi, in alveare non c’è molta differenza tra biologico e convenzionale.
 
Che ne pensate del problema antibiotici?
La legge dice che questi prodotti non si possono dare, ma dalla nostra esperienza, risale al 1956, su ideazione delle Università di allora, venivano concesse le autorizzazioni per certi prodotti. In quel periodo si usava il solfatiazolo sodato ed era un prodotto che funzionava per la peste americana. Era valido.
 
Cosa direbbe agli apicoltori che usano antibiotici?
Adesso gli direi di non usarli, non perché non funzionino ma semplicemente perché la legge non li ammette.
 
Utilizza particolari tecniche per migliorare il lavoro in apiario?
Abbiamo ideato una sceratrice realizzata a partire da unalavatrice. E’ stato come scoprire l’uovo di Colombo. Si tratta di una sceratrice con la quale si ottengono anche 7-8 quintali di miele di opercolo al giorno, e di favi normali da nido nel cestello ne entrano 34-35: nel giro di tre minuti viene estratta tutta la cera, senza lasciarne un filo nei favi. Poi abbiamo ideato una leva speciale che oggi è, appunto, chiamata “Leva Consegni” (foto qui a lato). Serve da cacciavite, da martello e raschietto e con la parte a cacciavite, è ricurva, si ha la possibilità di entrare tra telaino e telaino e si possono così togliere tutti i ponticelli in un attimo, lasciando tutti i telaini liberi dalla cassa. Il vantaggio della leva sta nel fatto che si riescono a fare più operazioni in un alveare, senza cambiare strumento. Inoltre, abbiamo creato anche un’altra leva che è l’ideale per noi che pratichiamo il nomadismo: i melari e le casse hanno le fasce per il nomadismo e senza la leva ci restava sempre difficile sollevarle, soprattutto quando sono propolizzate. L’operazione comportava una fatica immensa per la schiena. La leva, invece, s’inserisce a meraviglia fra le due fasce e i melari si staccano senza nessuna fatica. Utilizziamo anche la foratrice multipla per i telaini: ha il vantaggio di eseguire più fori contemporaneamente e sempre allo stesso punto. E ancora, posizioniamo il filo nei telaini da melario in orizzontale invece che in verticale. Questo perché quando si tolgono i telaini dal melario, hanno l’attaccatura della cera sia sotto che sopra, li puliamo tutti con il raschietto e se avessimo il filo in posizione verticale con il raschietto si trancerebbero tutti i fili, mentre in orizzontale non si ha questo problema. Abbiamo anche una carretta a cingoli che usiamo quando il camion, per qualsiasi necessità, non permette di scaricare gli alveari direttamente nell’apiario. La carretta a cingoli, porta 12 melari per volta e li porta alla sponda caricatrice. Dalla sponda caricatrice vengono messi direttamente su dei vassoi di lamiera, un vassoio sotto e uno sopra e vengono spinti nel cassone e caricati a mo’ di bancale.
 
Come lotta contro la varroa?
L’acido ossalico lascia il tempo che trova. In estate facendo tre trattamenti consecutivamente si riesce a buttare giù una buona parte di varroe, però non è un discorso risolutivo. Noi usiamo l’Apivar. Con l’avvento della varroa, circa venticinque anni fa, abbiamo adottato un nuovo sistema. Non avevamo gli escludi regina e tante volte le regine covavano nei melari e quelle celle di regina erano soggette a smielatura. Allora levando i melari vecchi, perché noi qualunque trattamento facciamo lo eseguiamo assolutamente senza melari, visto che non vogliamo contaminare i melari in nessun modo. Quindi, togliendo i melari ad agosto erano soggetti alla smielatura. Dare lo zolfo non mi piaceva e un giorno passando per Cesena vidi un’officina dove c’erano dei cassoni frigorifero e domandai se erano in vendita. Mi risposero di sì, e aggiunsero che erano tutti cassoni frigo perfettamente funzionanti ma non erano più idonei perché non ci entrava l’euro pallet. Insomma, erano state cambiate le misure del pallet e dunque quei cassoni frigo non andavano bene. Non mi feci sfuggire l’occasione e comprai questi due cassoni frigo: in ciascuno di essi si possono inserire 1500 melari. Il vantaggio del metodo? Inserendo i melari nel frigo, è termoventilato, si riesce a concentrare e ad asciugare tutta l’umidità che rimane nei telaini. Se l’umidità non venisse rimossa dopo 5 o 6 mesi il miele andrebbe incontro a fermentazione e acidificazione. In parole povere, andando a rimettere i melari in primavera con un processo di acidificazione conclamato il miele certamente non sarebbe più delle migliori qualità. Invece con il sistema frigo si toglie l’umidità completamente e si riesce a concentrare lo zucchero a livello di caramello. E di vantaggi ce ne sono anche altri. Prima si levavano i melari a settembre o a ottobre, si cercava di prendere il miele fino all’ultimo, però c’era il problema che in inverno le api portavano il miele nel melario e molte famiglie rischiavano di rimanere senza miele nel nido. Noi, invece, togliendo i melari così precocemente diamo l’opportunità alle api di rifarsi una bella scorta per tutto l’inverno, tanto è vero che in primavera “ci tocca” rimuovere due o tre telaini di miele per fare spazio alla covata. Da quando usiamo questo sistema non abbiamo più utilizzato candito o sciroppo per nutrire le api: le nostre api rimangiano tutto il miele prodotto da loro.
 
Cosa non funziona nel mondo apistico?
I soldi che ricevono le associazioni dovrebbero essere spesi più per la ricerca per la cura della varroa che in maniera superflua.
 
Le associazioni funzionano?
Le associazioni apistiche sono come i partiti: tante tessere, tanti finanziamenti. Poi, le associazioni, soprattutto a livello nazionale, rappresentano soltanto in parte l’apicoltore, più che altro rappresentano gli hobbisti. I Presidenti di queste associazioni dovrebbero essere assolutamente tutti dei professionisti e vivere le situazioni degli apicoltori che “campano” di questo mestiere.
 
Cosa funziona nel mondo apistico?
La cosa che funziona è che si riesce ancora a fare un certo reddito. Chi dimostra maggiore attenzione nei confronti delle api riesce a trarne un buon reddito. Il professionista, contrariamente a quanto si dice, deve amare per forza le api: se non le ami e le allevi soltanto a scopo di lucro difficilmente riesci a capirle e ad andare avanti.
 
Che cosa significa amare l'ape?
E’ una cosa che si ha dentro. Bisogna comprendere tutte le sue esigenze e questo avviene soltanto attraverso il lungo e costante rapporto che si ha con l’ape.
 
Che cosa significa essere professionisti?
Di sicuro, avere rispetto per la natura. Poi, il professionista deve mettere in conto, in dieci anni di lavoro, di centrare sei anni di produzione buona, un anno di produzione scarsa e tre anni di produzione pessima. Il bilancio dell’apicoltore non si può fare in un anno o in cinque, ma, lo ripeto, sui dieci anni. E in questi dieci anni si capisce se è un mestiere da continuare o da smettere. Il mio babbo diceva: «Api e ceci più di un anno che in dieci». E mi spiego. Il babbo il primo anno che fece il nomadismo smielò nove volte. Si trattava certamente di casse con un melario solo, però smielò nove volte. Quell’anno valse per dieci anni di lavoro.
 
Cosa rappresentano per lei le api?
La vita e la famiglia.
 
Ci racconti un episodio particolare legato alla sua attività.
Una sera stavamo scaricando gli alveari dal camion e ci trovavamo sulla riva delll’Arno. Mentre eseguivamo l’operazione una cassa è caduta accidentalmente, facendo uscire un gran numero di api. Noi si viaggiava dalla strada fino all’Arno con le api in spalla, io e mio fratello, mentre il babbo faceva luce con una torcia. A questo punto, arrivano due carabinieri sul ponte dell’Arno, e questa non è una barzelletta. I carabinieri, vedendo quello che appariva loro come un movimento sospetto, persone che andavano avanti e in dietro facendosi luce con una lampadina, si domandarono di chi si trattasse. uando ci raggiunsero di corsa riconobbero subito il babbo e si fermarono a parlare del più o del meno. All’improvviso, però, uno dei due carabinieri fece un bel salto da terra urlando disperato. Che cosa era successo? Vi ricordate la cassa caduta? Ebbene, le api che erano in terra gli erano penetrate lungo le gambe, dai pantaloni, sino ad arrivare al pube, pizzicandolo sulla punta del glande. Allora noi ci si sbellicava dalle risate vedendo i due carabinieri che correvano sbraitando e domandando che cosa si poteva mettere per alleviare il dolore. Dicevano disperati: « l’aglio o la cipolla?». Il povero carabiniere se la vide brutta per qualche giorno, ma poi tutto andò a buon fine.
 
Aspettative future della sua attività?
Che si trovi una soluzione per la varroa.
 
 
 • Le immagini di questa intervista (click per visualizzare)
Sandro, Mario e Luciano Consegni.
 
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