Speciale Apicoltori - n. 577, aprile 2008
Gli uomini dell'Apicoltura in Italia
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 • Luca Bonizzoni
Le api: una professione, una passione
di Massimo Ilari, Alessandro Tarquinio
 
 CARTA DI IDENTITÁ
 nome  Luca
 cognome  Bonizzoni
 età  54
 regione  Lombardia
 provincia  PV
 comune  Oltrepò Pavese
 nome azienda  Az. Agr. Luca Bonizzoni
inizio attività  1979
arnie  1400
 apicoltura  Nomade e Stanziale
tipo di api  Apis Mellifera Ligustica
 tipo di miele  Acacia
Castagno
Rododendro
Tiglio
Eucalipto
Melata di abete
Agrumi
Millefiori
 miele prodotto  700 quintali/anno
 
 • L'Intervista
 
Come ha iniziato l'attività di apicoltore?
Si vede che era nel mio karma. All’università ho fatto lettere. Il mio destino era l’insegnamento. Prima di finire gli studi avevo intuito che mi piaceva insegnare, ma che, per farlo bene, era necessario stare in una stanza a correggere temi e preparare lezioni. Non era la mia vita! Mi piacevano, invece, lavori concreti, meglio se all’aperto: vigna, vino, far legna. Per caso, - ma esiste il caso? - ho iniziato ad accudire 4 alveari paterni. Un disastro! Solo paura delle punture e frustrazione di non riuscire a fare quello che diceva il manuale. Allora decido di andare da un apicoltore vero per vedere se mi passava la paura. La fortuna - ma la fortuna esiste? - mi fa arrivare davanti alla casa di Onelio Ruini. Un grande! Aveva solo la V elementare, la sua lingua era il dialetto reggiano, ma ha fondato l’Unaapi, scontento di quello che faceva o non faceva la FAI. Capace di confrontarsi con assessori o funzionari ministeriali. Un grande apicoltore, bastava guardarlo e si imparava. Disponibile ad insegnare. Appena entrato in casa sua mi ha chiesto: “Vuoi imparare? Vieni mi aiuterai”. Dopo 5 minuti avevo in mano l’affumicatore SENZA GUANTI. Dopo sette giorni avevo le mani gonfie, meno paura e una passione che in 4 anni è diventata il mio lavoro. Avvenne 29 anni fa. Da allora molti sono entrati in casa mia per imparare. Qualcuno è apicoltore professionale.
 
Cosa vuol dire avere una passione per l'ape?
E’ un lavoro vario e avvincente, e fa impressione l’energia che le api hanno, che trasformano e che sembra, creino.
 
Secondo lei l’apicoltore prende esempio dall’ape?
Una stupidaggine dei vecchi libri di scuola: “Imparate dalle api, c’è un solo capo e tutte le operaie obbedienti che lavorano e fanno l’interesse di tutti”. Balle! Una famiglia di api è un organismo vivente, l’aveva capito Steiner 150 anni fa, adesso è verità scientifica, regolato da segnali biochimici, i feromoni, e da sistemi assai complessi di trasferimento delle informazioni Sembra ci sia un’organizzazione. Qualcuno che dice “fai questo”, “fai quello” mentre è tutto automatico. Reagiscono agli stimoli esterni - caldo, freddo, luce, profumi - in maniera eccellente e molto efficiente dal punto di vista energetico, elaborano e concentrano energia per loro, per noi e per la Madre Terra.
 
Quali sono le difficoltà che si incontrano nella sua zona?
Prima le cose positive. L’Oltrepò Pavese è un’ottima zona per l’invernamento e per la ripresa primaverile: c’è dell’acacia, sembra poca ma si fa tanto miele e buono. Poi varie fioriture poco abbondanti ma continue, ideali per la produzione di regine e nuclei. Se piove al momento giusto, con l’erba medica le famiglie tengono i maschi e le regine si raccolgono fino a settembre. Posto ottimo per il nomadismo: buone autostrade per arrivare su fioriture varie e abbondanti. I problemi arrivano da un’agricoltura ottusa che non capisce che rispettare le api è fondamentale per l’agricoltura stessa. Un tempo le api morivano per i trattamenti sui frutteti, adesso i rischi arrivano dai nuovi prodotti per combattere la flavescenza dorata della vigna anche se i problemi maggiori si hanno in pianura a causa dei neonicotinoidi che vengono usati per conciare le sementi del mais e del girasole. Si tratta di areali enormi che stanno diventando tabù per le nostre api che rischiano la strage. Tutti dicono che le api servono per l’agricoltura, ma settori dell’agricoltura stanno distruggendo le api.
 
Che problemi pone la commercializzazione?
Mi considero un signore perché sono stato tra i soci fondatori del Conapi, la più grande cooperativa italiana di miele. Non ho problemi di commercializzazione: la cooperativa ritira il miele. Tutto. Il vantaggio? Ciò mi ha permesso di passare da 350 alveari a 1000, senza pensare dove piazzare il miele. La cooperativa ha portato nei supermercati italiani quello che gli apicoltori producono e conoscono, gli ottimi mieli italiani, naturali come le api li fanno. Sto anche investendo per vendere direttamente il mio prodotto al consumatore, in azienda. Un lavoro più impegnativo, ma più gratificante. In questo caso il consumatore ha molte più informazioni, viene in azienda, vede le api, capisce il processo di lavorazione e, se ci sceglie, diventa un nostro alleato e un testimonial verso l’esterno: un co-produttore.
 
Lei fa nomadismo?
Sì moltissimo, e non solo per produrre mieli di qualità diverse. Porto oltre 600 nuclei durante l’inverno in Sicilia per far star bene le api. Ho iniziato 19 anni fa in questo modo e ho risolto il problema del nosema: le api volano, si spurgano e stanno meglio. Tenere le api in posti ricchi di nettare e polline le fa stare bene, non c’è bisogno di essere dei geni per capirlo. Facciamo molto nomadismo per produrre miele ma ancor di più all’inizio e alla fine della stagione per tenerle su raccolti piccoli ma buoni per la loro sussistenza. Risultato? Meno nutrizioni, meno saccheggi, maggiore facilità di lavoro e famiglie più sane. Non sono un filantropo, se le tengo in posti ricchi ne ho anch’io dei vantaggi. In Sicilia si fanno regine presto e nuclei pronti per la vendita prima dell’acacia. Le famiglie quando tornano sono così forti che possono aiutare quelle che sono qui. In montagna ci andiamo anche perché tiglio e rododendro sono mieli ottimi e pregiati.
 
Un Apicoltore deve essere anche un esperto botanico?
Certo! Deve conoscere le piante di tutti i posti in cui porta le api, ma anche l’agricoltura e l’ambiente. Ci vogliono 5 anni per conoscere le potenzialità di un posto e in più si deve essere un esperto di clima. E’ complesso, ma interessante.
 
Che tipo di apicoltura pratica?
Noi facciamo apicoltura “varia” e apicoltura biologica. Iniziamo da quella “varia”. Odio la noia. Se impostassi l’azienda per fare solo miele, sarebbe più razionale, diminuirei i costi ma mi annoierei. All’inizio facevo sciami per ingrandire l’azienda adesso li faccio per venderli. E’ entusiasmante. E’ più bello che vedere il miele nel melario: si può osservare la famiglia che cresce, che costruisce fogli uno dopo l’altro. Per fare sciami ci vogliono le regine che non sempre si trovano. E’ stata una necessità e nello stesso tempo naturale imparare a farle, è un lavoro molto più delicato e complesso, ma interessante e avvincente. Il clou alla fine: vedere le regine fecondate. Troppo bello! Avrei altre idee stimolanti, ma meglio stare calmi, apicoltura più varia = apicoltura meno redditizia. E veniamo all’apicoltura biologica. Nel ‘79 il concetto di apicoltura “bio” forse non esisteva, ma è quella che mi ha insegnato Ruini. Un’apicoltura senza antibiotici, quella è sempre stata la mia apicoltura. Fare il biologico mi viene naturale. Se faccio l’orto, lo concimo con il letame o il compost; poi arriva qualche parassita e mi mangia tutta la rucola. Questa terra ci fa sopravvivere da millenni, che diritto abbiamo di sporcarla, alterarla, distruggerla? Fra poco la casa e l’azienda saranno alimentate con il fotovoltaico. Mi fa piacere pensare che tutta l’energia che useremo verrà dal sole e che per far girare lo smielatore non altero l’equilibrio del Pianeta. Non risolverò io, da solo, problemi ecologici enormi, ma ognuno deve fare la sua parte.
 
Cosa direbbe agli Apicoltori che usano antibiotici?
Nel 2006 l’assemblea dell’Associazione Professionisti che dirigo ha approvato una mozione contro l’uso degli antibiotici in apicoltura e non conosco prese di posizione simili in Italia. Non utilizzare antibiotici è possibile e per quanto mi riguarda ho perdite fra il 3 e il 5% per peste. Un’unica cosa: c’è da lavorare di più, guardare di più le api. Chi ha sempre usato gli antibiotici quando smette ha problemi maggiori, c’è il rischio che la peste appaia in un elevato numero di alveari. Per fortuna, adesso non c’è più bisogno distruggere il materiale che può essere sterilizzato con i raggi gamma.
 
Come lotta contro la varroa?
Da anni utilizziamo il timolo su base evaporante in estate e l’acido ossalico in inverno. Niente di nuovo, da noi sono almeno 300.000 gli alveari che sopravvivevano alla varroa grazie a questo metodo. Da un po’ il sistema non funziona e quest’anno chi non è corso ai ripari segnala perdite dal 30 all’80%. Un’ecatombe. Qualcuno parla di resistenza al timolo. Non lo penso. Forse la varroa è diventata più svelta, ha ridotto il tempo in cui sta sulle api, è più difficile colpirla. In più, la quantità di varroa presente negli alveari in estate è enorme rispetto ad un tempo. Perché? Un po’ è dovuto al clima, al nord con inverni più miti non si interrompe più la covata e si innesca un meccanismo distruttivo: covata sempre presente = più cicli di riproduzione di varroa = numero insostenibile di varroe in estate. Un po’ è un errore nostro: pensavamo che una passata di ossalico gocciolato fosse sufficiente ad azzerare le varroe in inverno. Ci sbagliavamo! Perché dagli ultimi dati dell’INA è un metodo che se va bene ha un’efficacia del 90%; se ci sono 1000 varroe ne rimangono 100: troppe.
 
Può entrare più nel dettaglio?
La ragione è semplice, quell’efficacia si ottiene se non c’è covata, ma come fare a saperlo? Con questi inverni caldi trattiamo e la varroa se la ride sotto la covata. 100 varroe sopravvissute all’inverno portano carichi inaccettabili ad agosto e diventa una spirale perversa. Penso sia quello che è successo a cavallo fra 2006 e 2007. Per uscire da questa spirale l’estate scorsa ho tolto da tutte le famiglie - più di mille - tutta la covata in estate e ho fatto dei nuclei. Dopo 12 giorni ho messo le regine trattando famiglie e nuclei, in assenza di covata, almeno due volte. Alla fine, se era necessario, ho riunito i nuclei alle famiglie. Un incubo. Tantissimo lavoro e grandi attenzioni. Guai dimenticarsi un favo di covata o sbagliare il giorno del trattamento. Alla fine si hanno costi enormi e molte famiglie invernate in meno; però sembra che all’uscita dell’inverno andiamo benino: abbiamo perso poche famiglie e non per varroa. Dimenticavo, in più questo inverno abbiamo fatto 4 volte l’ossalico sublimato. Un lavoro brutto e disagevole soprattutto per l’operatore, sebbene protetto dalle migliori maschere antigas. Bisogna dirlo chiaro, la varroa sta ammazzando gli apicoltori biologici veri, alcuni ci hanno rinunciato. Il mio lavoro di quest’estate è incompatibile con la redditività aziendale. Colleghi che hanno lavorato un po’ meno, ma si parla comunque di almeno 8/10 interventi in un anno, stanno registrando perdite del 25/50% . In nessuno dei due casi si sopravvive. Il miele di un’azienda bio dovrebbe essere pagato il 40% in più rispetto a quello convenzionale. Attualmente il mercato all’ingrosso ci riconosce il 15%. Se il prezzo del miele bio non si alza decisamente o se non si trova qualcosa di nuovo, biologico, per trattare la varroa - una chimera - rimarranno in vita solo gli apicoltori biologici fasulli. Mi meraviglia molto che questa preoccupazione non sia registrata dal mondo della ricerca apistica e dai veterinari. E c’è dell’altro. Sento spesso riproporre in articoli e convegni il vecchio sistema di lotta. 3/4 interventi con timolo in estate e un trattamento con ossalico gocciolato in inverno. Scusate dove vivete? Parlo con centinaia di apicoltori che hanno utilizzato questo metodo e tutti mi dicono che hanno avuto gravi perdite. In molti hanno provato a cambiare qualcosa: interventi ripetuti, tanti, con i timoli o con ossalico in stagione. Qualcuno ha rispolverato l’acido formico o l’ossalico sublimato 3/4/6 volte. Mi chiedo e lo chiedo ufficialmente. Le famiglie di proprietà o gestite dagli Istituti di ricerca o dagli Zooprofilattici o dalle Università sono vive? Se sì, cose è stato fatto per farle sopravvivere nel 2005, nel 2006 e nel 2007?
 
Cosa funziona in apicoltura?
La condivisione delle idee, delle esperienze, dei progetti. 30 anni fa facevo domande ai colleghi, tutto andava bene, ma nessuno diceva nulla e nessuno aveva mai avuto la peste. Adesso provate a venire al convegno dei professionisti, 5 giorni in cui si mettono in comune esperienze su tutto lo scibile apistico. Da 15 anni chiunque può partecipare ai lavori della Commissione Sanitaria dell’Unaapi, per parlare di quello che un tempo era un tabù. Le malattie delle api .
 
Cosa non funziona nel mondo apistico?
Tre cose: la rappresentatività, la sanità, la selezione. E ancora. Chi sono gli apicoltori? Chi li rappresenta a livello istituzionale? Alla base, da sempre, in Italia, c’è un fraintendimento: “tutti gli apicoltori sono uguali, tutte le associazioni sono uguali”. E’ una stupidaggine. Certo è apicoltore sia chi ha due alveari in giardino e chi ne porta in giro 2000 e ci fa campare 5 persone. Ma gli interessi che hanno sono diversi. Quali interessi deve rappresentare un’associazione che li riunisca? Il pescatore con la canna sul molo di Rimini è uguale ai 5 pescatori che lavorano sul peschereccio che sta uscendo dal porto? A prima vista sì: tutti pescano. Dal punto di vista economico, sociale e politico no. L’associazione dei pescatori che discute con il ministro la nuova legge sulla pesca o i provvedimenti per il gasolio agevolato per i pescherecci rappresenta chi ottiene un reddito pescando o il pescatore con la canna? La risposta è ovvia: la rappresentanza ufficiale spetta solo a chi produce reddito: ai pescatori produttivi. Sicuramente ci sono anche le associazioni dei pescatori hobbisti, ma non vanno dal ministro, né lo pretendono. In apicoltura è diverso. 50 apicoltori con dieci alveari l’uno fanno un’associazione. 10 di queste associazioni locali si mettono insieme e formano una federazione nazionale che chiede al ministro di discutere di leggi e possibilmente di avere denari per aiutare gli apicoltori. Perché le istituzioni devono ascoltarli? Forse, si tratta di 5000 alveari, su un totale nazionale di oltre un milione. Producono reddito? Pagano le tasse?
 
E allora?
Nel momento in cui pretendiamo che l’apicoltura sia riconosciuta come settore agricolo stiamo pensando agli apicoltori quali produttori, soggetti economici. Quanti più apicoltori con partita IVA, con alveari censiti e con fatturati dichiarati saranno presenti nelle associazioni, tanto più queste avranno peso e rappresentatività. Le associazioni devono essere fatte di produttori che fanno reddito, siano essi professionali o semi professionali.
 
Non pensa di sollevare le proteste degli hobbisti?
Sento già un sacco di proteste. “Tu vuoi fa scomparire gli hobbisti”. In realtà, una persona che fa qualcosa per hobby non scomparirà mai, perché si diverte. Ma chi è l’apicoltore hobbista? Chi tiene 5 alveari in giardino perché gli piace veder volare le api; se fa un po’ di miele lo mangia o lo regala. Sono una categoria piccola, ma importante per la tutela dell’ambiente e dell'agricoltura. Vanno aiutati e tutelati soprattutto sul fronte sanitario. Altri apicoltori sono chiamati erroneamente hobbisti. Chi ha 15 alveari può produrre 500 kg di miele che viene quasi tutto venduto. E’ un piccolo soggetto economico, un semi-professionista, che trae dal suo lavoro un reddito. Anche per lui ci sono diritti, rappresentanza e contributi, e doveri: uscire dal sommerso.
 
E per quanto riguarda il problema sanitario?
Il regolamento di medicina Veterinaria del 1954 riguarda tutti gli animali, anche le api. Forse per gli altri animali funziona, per le api no. Perché non considera la specificità delle api: non stanno chiuse in stalla visto che volano, e perché mette tutte le malattie sullo stesso piano, ma il nosema, tanto per fare un esempio, è completamente diverso dalla peste. Se il regolamento fosse applicato pedissequamente l’apicoltura produttiva sarebbe impossibile. Stiamo facendo delle proposte per cambiare il regolamento alle radici. Speriamo. C’è un altro problema sul versante sanitario. Il regolamento europeo sui farmaci veterinari prevede che per curare una malattia si possano usare solo prodotti fatti e registrati per quella malattia. Per il controllo della varroa in modo soft o bio l’acido Ossalico è fondamentale. Ma non c’è nessun prodotto registrato a base di acidi organici. Chi lo usa è, di fatto, fuori legge. E’ un assurdo, sono prodotti poco dannosi per la salubrità del miele, ma sicuramente non ci sarà mai nessuna azienda che si prenderà l’onere di registrare un prodotto che si può acquistare ad un prezzo irrisorio.
 
E la selezione?
100 anni fa eravamo al primo posto per la produzione di api regine. L’ape “Italiana” ha popolato tutto il mondo, i nostri allevatori erano all’avanguardia. Dal periodo fascista abbiamo ereditato uno sforzo importante e continuo a favore di un Istituto con lo scopo principale di fare selezione con una razza: la ligustica. C’erano e ci sono i denari, le api e i tecnici stipendiati per questo scopo. E’ mancata una sola cosa: i risultati, ovvero delle madri provenienti da linee selezionate - per razza e comportamento - definite, controllate e garantite. In Italia ci sono molti buoni produttori di regine. Produrre regine e fare selezione sono due cose diverse. Un produttore può fare selezione massale. Se ha molte api da osservare ha più probabilità di trovare dei soggetti interessanti, ma più è approfondita l’osservazione più costa. I risultati sono spesso casuali e non durano nel tempo a meno che non si ricorra alla fecondazione artificiale in modo massiccio, cosa non alla portata di un produttore di regine. Se un produttore di regine vuole partire da madri che trasmettano alle figlie caratteristiche definite, in Italia non le trova. E’ un assurdo.
 
Cosa rappresentano le Api per lei?
Una grande passione e la fonte del reddito mio e di chi lavora con me
 
Aspettative future dell’attivita?
A livello associativo: costruire una unica associazione che rappresenti gli interessi dei produttori apistici che possa interloquire con autorità con le istituzioni. Per me… entro 10 anni essere assunto dalla mia azienda che avrò venduto a qualche giovane apicoltore. Le mie mansioni potrebbero essere: addetto alla produzione di sciami o di regine o alla selezione delle madri.
 
 
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Luca Bonizzoni
 
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