Speciale Apicoltori - n. 574, gennaio 2008
Gli uomini dell'Apicoltura in Italia
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 • Marco Valentini
Apicoltura? E' fatta per i giovani
di Massimo Ilari, Alessandro Tarquinio
 
 CARTA DI IDENTITÁ
 nome  Marco
 cognome  Valentini
 età  48
 regione  Toscana
 provincia  AR
 comune  Sansepolcro
 nome azienda  Apic. Marco Valentini
inizio attività  1977
arnie  300
 apicoltura  Nomade e Stanziale
tipo di api  Apis Mellifera Ligustica
 tipo di miele  Acacia
Castagno
Tiglio
Erica
Girasole
Eucalipto
Millefiori
Melata di abete
 miele prodotto  80 quintali/anno
 
 • L'Intervista
 
Come ha iniziato l'attività di apicoltore?
Galeotto, per parafrasare Dante, fu lo sciame che si fermò nella casa di colei che sarebbe diventata poi mia moglie, ad Ostia Antica. Mio cognato mi chiamò perché frequentavo la facoltà di Agraria e recuperammo lo sciame assime. A questo punto decidemmo di acquistare dal mitico e unico negozio, a quell’epoca, di apicoltura a Roma, quello di Tuzi in Via Castelfidardo, un’arnia in cui abbiamo messo lo sciame che ovviamente dopo un anno morì, pagando la nostra inesperienza. In seguito acquistammo altri 30 alveari da un apicoltore che stava cessando l’attività.
 
Però nella legge è stabilito che il miele è una sostanza naturale prodotta dalle api cosi com’è. Non crede che l’uso di antibiotici porterebbe un grossa danno all’immagine del miele?
All’epoca ero studente universitario, e non avendo terreni di proprietà, era l’unico modo per avviare l’attività agricola e poi mi era utile per avere un piccolo reddito. Iniziai a vendere il miele “porta a porta” e ai mercatini. E’ stata una bella esperienza.
 
E’ quello che potrebbero fare tanti giovani?
Per i giovani l’apicoltura è un ottimo mestiere.
 
Cosa significa avere una passione per l’ape?
Di fondo la passione per l’apicoltura è sempre presente; non esiste apicoltore che non abbia o abbia avuto la passione per il proprio mestiere ma riguardo all’ape non è certamente così smodata come potrebbe sembrare. Un esempio. Dove è la passione quando si utilizzano ogni genere di molecole chimiche, senza badare al fatto che le api devono vivere all’interno dell’alveare? Mi piacerebbe capire dove finisce la passione. Molto spesso sono soltanto parole per attirare l’attenzione. L’ape è sempre un mezzo, è difficile che sia anche un fine. Conosco pochissima gente che ha l’ape come fine.
 
Cosa non funziona nel mondo apistico?
Soprattutto il fatto che riesco a fare reddito con un mestiere affascinante che mi permette di essere a contatto con la natura, e poi utilizzo l’ape come strumento di comunicazione che per me è importantissimo. Allevare api è un gioco divertente con il quale si riesce persino a ricavare un reddito. L’apicoltura ha come vantaggio quello di non essere un lavoro monotono; ogni volta che si apre un alveare c’è sempre una nuova scoperta. Nessuno potrà mai dire di essere un apicoltore arrivato, c’è sempre da imparare. Proprio per questo l’apicoltura è l’ideale per i giovani, perché potrebbe soddisfare la loro voglia di creatività, di cambiamento e di lavoro. Purtroppo quello che frena oggi i giovani è la paura; noi viviamo in una società nella quale il terrore è utilizzato come mezzo di repressione subliminale. I mezzi di comunicazione non fanno altro che metterci paura di ogni cosa, e quindi è chiaro che un giovane, di primo acchito, non si avvicinerà mai all’ape per paura delle punture e dei suoi effetti. Invece, secondo me, l’apicoltura sarebbe un ottimo mestiere che ti consente quando sei giovane di avere subito un reddito senza per questo investire grandi somme. Questo è anche il motivo per il quale l’apicoltura è utilizzata dai paesi ad economia emergente per migliorare i loro conti. Con una spesa iniziale di mille euro entro un anno, se tutto va bene, si riesce, col miele venduto a recuperare la cifra spesa e l’anno successivo si comincia a guadagnare. Portarsi a casa, alla fine dell’anno, due o tremila euro per un giovane di diciotto/venti anni io credo possa essere un buon inizio.
 
Quali sono le difficoltà maggiori oggi in apicoltura?
Le principali sono sicuramente le malattie e la commercializzazione. Da non sottovalutare la mancanza di un serio programma (salvo casi rari e benemeriti) di assistenza tecnica. L’apicoltore che magari ha solo due o tre anni di esperienza e cento alveari se ha un problema non sa a chi rivolgersi. Può andare certamente all’associazione apicoltori della propria provincia (se c’è), ma non sempre trova le risposte giuste e sono rare le associazioni in cui c’è un apicoltore professionista in grado di intervenire sul campo. Cosa fa, quindi l’apicoltore? Va dal collega a portata di mano, magari anziano, che usa pratiche vecchie e che non può fornire risposte adeguate ai tempi che corrono.
 
Chi deve fare assistenza tecnica agli apicoltori?
Purtroppo, gli apicoltori non sono abituati ad utilizzare il servizio di assistenza tecnica. Se si presenta un problema e si devono spendere 100 euro per un esperto apistico si preferisce chiamare l’amico, o trovare strade alternative. In questo momento storico dovrebbe essere l’Associazione di riferimento a fornire il servizio (e ce ne sono, come la mia di Firenze). In più, bisognerebbe fare un discorso serio con i veterinari, perché spesso non hanno tempo sufficiente a disposizione per fare assistenza tecnica e poi sono pochi quelli che conoscono bene la materia. Quindi l’esperto apistico dovrebbe essere il ponte tra l’apicoltore e il veterinario. Se un apicoltore ha un problema di peste americana e chiama l’esperto apistico, questo gli dovrebbe consigliare di bruciare se le cassette malate sono una o due, mentre se sono cinquanta, dovrebbe intervenire il veterinario perché in questo caso il problema è territoriale e la sola distruzione degli alveari non basta e andrebbe accompagnata dall’ispezione di tutti gli alveari limitrofi per capire da dove nasce il problema. La questione non è semplice perché poi ci sono molti di coloro che spostano gli alveari che non amano avere i veterinari tra i piedi e il problema si ingarbuglia.
 
Cosa consente all’apicoltore di essere tranquillo dal punto di vista commerciale?
Sicuramente il prezzo di vendita del miele, soprattutto per gli apicoltori che lo vendono all’ingrosso, in fusti da tre quintali, perché se manca la vendita diretta il reddito non è sufficiente a mandare avanti la famiglia. Alcuni, e questa mi sembra una buona idea, si cercano un lavoro invernale che da ottobre a febbraio consente loro di avere una buona integrazione di reddito per i mesi nei quali non si lavora con le api. Io stesso, oltre all’apicoltore, faccio consulenze.
 
Pratica il nomadismo?
Sì, anche se sarebbe bene non farlo. Purtroppo bisogna praticarlo per forza perché quando si va a vendere il miele, se lo si propone ai mercatini o ai negozi occorre presentare un listino il più ampio possibile. Il nomadismo è diventato quasi obbligatorio.
 
Perché sarebbe meglio non farlo?
Perché si consuma energia. Se devo andare a produrre l’acacia a Pistoia devo prendere il mio autocarro, trasportare le api, ritornarci tre o quattro volte e riportarle indietro. Ciò è tutto gas serra che si libera nell’aria, un aspetto assai poco ecologico.
 
Un Apicoltore deve essere anche un esperto botanico?
Non c’è bisogno che sia proprio un esperto botanico, è chiaro che l’esperienza porta ad entrare in armonia con l’ambiente, e dunque col tempo si capisce quando ci sono le fioriture di interesse apistico. Il bello e il brutto dell’apicoltura è proprio questo: bisogna sapere tante cose di ogni settore, anche se nessuna portata all’estremo. In parole povere, devi sapere fare lavori di falegnameria senza essere un cesellatore, un entomologo (o meglio un etologo) senza essere un ricercatore; inoltre devi conoscere le norme che regolano il tuo lavoro senza essere un avvocato, bisogna sapere smielare, o imparare ad avere rapporti cordiali con la clientela, e tanto altro ancora. Ma forse questo è anche il bello di questa professione.
 
Che tipo di apicoltura pratica?
Sono un apicoltore che segue il metodo di agricoltura biologica dal 1994 (anno in cui ho preso la partita IVA) ma le api le ho sempre allevate senza l’uso di molecole di sintesi. La mia è una scelta di vita con la consapevolezza che il mondo come era allora e soprattutto come è adesso non va bene, siamo sull’orlo del baratro, e ben coscienti di esserlo, eppure ci comportiamo come se fossimo l’ultima generazione di uomini ad abitare la Terra. Bisognerebbe recuperare un rapporto più sano con Madre natura, ma ne siamo più capaci?
 
Perché molti apicoltori sono contro il biologico?
Perché cambiare le proprie abitudini è molto difficile. Questo non vale soltanto per l’apicoltura ma in tutti i campi è così. Si preferisce dire che quel cambiamento non va bene piuttosto che affrontare le novità. Sono tuttavia convinto che ci sono apicoltori convenzionali che producono dei mieli migliori di qualche apicoltore biologico, ma almeno questi ultimi si fanno controllare. Dietro il biologico ci dovrebbe essere una filosofia di vita e non il business. Per fare un esempio, molti apicoltori, quando hanno dei problemi con la peste americana, fanno passare le arnie ai raggi gamma perché dicono, forse giustamente, che non rimane nessun residuo dentro l’alveare. Ma a me non interessa perché penso soprattutto agli abitanti che sono costretti a vivere vicino alle ditte che producono raggi gamma; io lì non ci starei (e sono convinto che la pensano così molti di quelli che fanno irradiare le loro arnie) e vorrei che nessuno avesse un ditta che produce radiazioni sotto casa.
 
Cosa direbbe agli apicoltori che usano antibiotici?
Di lasciare perdere. Capisco benissimo la paura di smettere, però posso assicurare gli apicoltori che non è assolutamente così drammatico farne a meno; lo posso dire perché molti apicoltori che hanno smesso di utilizzarli, seguendo i miei programmi d’intervento, si sono accorti che in fondo le infezioni non erano così alte. Naturalmente non deve esistere che un alveare muore di peste americana, in quanto questo avrebbe ripercussioni gravissime per il contagio che ne scaturirebbe. L’apicoltore deve accorgersi quando sono presenti pochissime celle infette e ciò può avvenire solo se si ispezionano regolarmente gli alveari. La peste americana alloggia nelle aziende degli apicoltori che non ispezionano regolarmente i loro alveari e spesso ciò avviene perché questi allevatori vogliono allevare troppi alveari rispetto alle loro possibilità. Diciamo che ogni anno ho meno di dieci casi di peste americana e intervengo facendo fuori tutto. Se l’arnia è vecchia brucio anch’essa, altrimenti la recupero.
 
La moria principale oggi in Italia è la peste americana?
No, assolutamente. E’ la varroa la prima causa e di gran lunga. Spesso gli apicoltori hanno paura di fare una brutta figura con i loro colleghi se affermassero che gli sono morti molti alveari per varroa; è come dire di non esser stati sufficientemente pronti ad intervenire. E allora meglio dare la colpa ad una serie infinita di altre cause (che non dico che non siano importanti) come nuovi parassiti, Nosema ceranae, antiparassitari, onde elettromagnetiche, OGM, ecc. ma la realtà è che le mortalità maggiori in Italia avvengono perché gli alveari sono debilitati dalla varroa.
 
Utilizza particolari tecniche per migliorare il lavoro in apiario?
Nulla di particolare. Il mio lavoro comincia a febbraio valutando le scorte delle famiglie. Segue un primo pareggiamento delle scorte poi, verso marzo, pareggio la covata e, in definitiva, la forza della famiglia, nel frattempo tengo sotto controllo la sciamatura mantenendo gli alveari con 7, massimo 8 telaini di covata; con i telaini di covata (e api) che avanzano produco sciami artificiali, e se mi trovo in prossimità della fioritura dell’acacia, distruggo anche le celle reali. La ragione? Essendo la fioritura dell’acacia la più importante, preparo gli alveari affinché siano abbastanza forti per raccogliere ma non abbastanza per sciamare e questo fino a quando non si schiude il primo fiore di acacia. Naturalmente questi sono solo i buoni propositi che devono fare i conti con la realtà che spesso ci mette lo zampino per scombinare tutti i miei piani…
 
Come lotta contro la varroa?
In estate, in presenza di covata, con il timolo, mentre a fine autunno, in assenza di covata, uso l’acido ossalico che uso spruzzato perché mi consente di visitare tutti gli alveari. A fine ottobre, metà novembre, ispeziono tutti gli alveari, estraendo telaino per telaino e spruzzo l’acido ossalico al 3% sulle api: mentre eseguo il trattamento, mi rendo conto esattamente quali sono le scorte e lo stato di salute degli alveari. Con questo sistema riesco a sapere cosa mi devo aspettare a febbraio, quando riaprirò gli alveari. Per ogni alveare scrivo tutto quello che osservo tramite delle particolari schede con un sistema di voti che assegno alla quantità di api, alle scorte di miele, alla aggressività e alla presenza di covata che viene considerato un segnale negativo. Questi dati vengono poi presi in considerazione quando devo decidere da quali famiglie prelevare il materiale genetico per l’allevamento delle regine.
 
Cosa non funziona nel mondo apistico?
Tutto ciò che non funziona negli altri settori del nostro paese. Si presentano sempre gli stessi difetti, siamo vecchi, non siamo pronti ai cambiamenti. Naturalmente questo è un argomento che meriterebbe un intero numero di Apitalia e se lo vogliamo affrontare in poche righe rischiamo di fare confusione. Ma per fare un esempio Aboca, la nota ditta erboristica e biologica, mi ha richiesto di trovare propoli biologica e da due anni sto allertando tutti gli apicoltori che conosco eppure non sono riuscito a trovarne neppure un etto e allora siamo costretti ad andare a comprarla all’estero. Le aziende sono spesso condotte da persone al limite della pensione e non hanno voglia di mettersi in gioco con produzioni che non sono fortemente remunerative. Sono stato per molti anni nel mondo organizzativo apistico, e conosco alcuni dei problemi, tra i quali la forte litigiosità. Comunque in apicoltura, come in altri settori e addirittura in Parlamento ci troviamo con problemi di ricambio generazionale. Per carità, si tratta di persone bravissime e competenti, ma non c’è ricambio. Quando si va all’estero, nei paesi emergenti, si nota molto bene che la classe dirigente ha meno di quarant’anni, sono preparati ma, soprattutto, hanno una gran voglia di fare, quindi sono pronti a recepire qualsiasi cambiamento. Negli ultimi anni si è parlato tanto di produrre pappa reale in Italia e troppo spesso a sproposito. Chi sa quali sono i prezzi internazionali dei prodotti apistici sa anche che è una stupidaggine sperare di competere con la Cina nella produzione di pappa reale e il rischio è di illudere gli apicoltori e di fargli sperdere un sacco di soldi, magari per vendere qualche regina in più. La Cina produce all’incirca il 90% della produzione mondiale e dell’altro 10% buona parte è prodotto da altri paesi asiatici e questo perché il prezzo della loro pappa reale è più basso di oltre 10 volte rispetto al nostro. Se un giorno ci vogliamo soffermare a capire il perché possiamo farlo, ma è così. Perché, allora non puntare su altri prodotti i cui prezzi internazionali sono molto più vicini ai nostri? La propoli, ad esempio, che in questo momento ha dei prezzi molto allettanti, oppure il polline il cui prezzo internazionale discosta solo del 20-30% rispetto al nostro costo di produzione; perché intestardirsi su un prodotto il cui prezzo internazionale discosta del 1000% rispetto a quello che è possibile fare in Italia?
 
Ma perché nessuno si mette a fare propoli?
Se dico a un ragazzo di 20 anni che conduce 300 alveari che con poco più di 1 euro ad alveare può realizzare senza nessuno sforzo, circa 45-50 chili di propoli in un anno ovvero circa tremila euro, sono convinto che si metterebbe a produrla; ma quanti apicoltori di vent’anni ci sono in Italia? Un apicoltore anziano, al contrario, mi dice, e giustamente, che quella cifra non gli cambia la vita.
 
Quindi è necessario che entrino forze giovani in apicoltura?
Assolutamente si; quello che posso consigliare agli apicoltori è di dare in mano ai figli le proprie aziende, di responsabilizzarli e di affidarsi alla loro voglia di fare.
 
Cosa funziona nel mondo apistico?
Se guardo agli altri settori agricoli devo dire che la mancanza di aiuti e finanziamenti ci ha costretto, senza piangerci troppo addosso a seguire ogni strada possibile per commercializzare al meglio i nostri prodotti; del resto siamo o non siamo stati noi a essere i precursori della filiera corta?
 
Ci racconti un episodio particolare legato alla sua attività.
E’ chiaro che le cose più curiose accadono all’inizio della carriera, quando si è ancora inesperti e si fanno delle stupidaggini che le api non perdonano. Magari cade un alveare, o si apre inavvertitamente durante un trasporto oppure, distrattamente, si lascia la maschera aperta. Una volta, ero agli esordi, durante un trasferimento mi cadde un alveare in terra, e la paura mi fece fuggire a gambe levate, sembravo Mennea! Il peggio fu che lasciai il mio compagno a prendere le punture. Per fortuna, tutto si risolse per il meglio.
 
 
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Marco Valentini
 
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