Speciale Apicoltori - n. 582, ottobre 2008
Gli uomini dell'Apicoltura in Italia
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 • Renato Garibaldi
I Garibaldi? Un DNA apistico in comune
di Massimo Ilari, Alessandro Tarquinio
 
 CARTA DI IDENTITÁ
 nome  Renato
 cognome  Garibaldi
 età  48
 regione  Friuli-Venezia Giulia
 provincia  UD
 comune  Cercivento
 nome azienda  ApiCarnia
inizio attività  1977
arnie  1400
 apicoltura  Nomade
tipo di api  Apis Mellifera Carnica
Apis Mellifera Ligustica
 tipo di miele  Acacia
Millefiori
Rododendro
Tiglio
Castagno
Girasole
 miele prodotto  500 quintali/anno
 
 • L'Intervista
 
Come ha iniziato l'attività di apicoltore?
Il mio primo contatto con le api è stato a Faedis, un paesino delle colline friulane vicino ad Udine. Tentai di iniziare la mia carriera di apicoltore avvalendomi di una scatolina di fiammiferi svedesi: catturavo le api bottinatrici una ad una e poi le riponevo in una scatola di scarpe che avevo messo nel sottoscala, all’ombra. Avevo imbrattato di miele la scatolina di fiammiferi svedesi così da bagnare di miele le ali delle api per avere modo di trasportarle e poi liberarle. Avevo quattro o cinque anni e dopo la trentesima ape trasportata nella scatola per un mio movimento maldestro l’ape mi punse a cavallo tra l’indice e il pollice e la puntura mi provocò un dolore lancinante. Per il forte dolore lanciai in aria la scatoletta e inforcai la bicicletta e corsi dalla nonna. Ricordo, come se fosse ora, che la nonna tolse il pungiglione, mi diede un bacio e mi accompagnò a casa tenendo premuto un coltello sulla puntura. Incredibile similitudine con Clelia, la figlia dell’eroe dei due mondi, che alla Fontanaccia, luogo in cui si trovava l’apiario di Caprera, fu punta come me dall’ape. Poi, la nonna tagliò una cipolla e la applicò sopra il punto interessato. Da quel giorno le api mi fecero paura, anche in seguito quando andavo a Cabella Ligure, dove abbiamo l’alveare di famiglia, aiutavo mio padre soltanto nelle operazioni di smielatura e guardavo le api sempre con molto sospetto: a prima vista sembrava che la mia avventura da apicoltore fosse finita lì. Invece nell’estate del 1976, in seguito al grave terremoto che colpì il Friuli e quindi rese insicura tutta la regione, passai l’estate in Liguria, proprio nella casa di Cabella Ligure. Un giorno, durante la nostra permanenza, papà mi chiese di dare una rinfrescata agli alveari ormai rovinati dal tempo. Ubbidiente mi misi a verniciare le arnie, era una bella giornata di luglio e le api bottinatrici volavano avanti e indietro. Ad un certo punto diedi una bella pennellata sul davanti dell’arnia, quando mi sembrava che le api bottinatrici si erano fermate un attimo, ma quando mi tolsi dalla traiettoria di volo ne vidi arrivare un centinaio sul predellino di volo. Erano cariche di palline di polline, colorate di tutti i colori, e meravigliato da quanto avevo appena visto chiesi a mio padre di spiegarmi quanto avevo appena osservato. Galeotta fu la pittura: proprio quel giorno, dalla sua risposta appassionata, virtualmente, nacque la mia storia di apicoltore. Avevo appena sedici anni.
 
Cosa significa avere una passione per l’ape?
E’ una cosa indescrivibile, tornando a casa in Friuli dopo quell’estate avevo il racconto di mio padre sul mondo delle api che mi frullava in testa. E passai l’inverno, tra il ‘76 e il ‘77, a studiare apicoltura. Ciò mi spinse durante la primavera a cercare i miei primi due sciami: avevo una molla dentro che mi diceva che facevo parte di questo mondo. Ho scoperto, poi, che la passione per le api era legata indissolubilmente alla mia famiglia: ciò che avevo appreso da mio padre era in realtà una tradizione che gli era stata trasmessa dal nonno e scoprii che anche il bisnonno si occupava di api. Ovviamente la passione per le api era tanta e non mi interessava chi della mia famiglia avesse fatto l’apicoltore: ero trascinato verso questo mondo. La cosa fu talmente eclatante che violai la plurisecolare tradizione di famiglia che voleva tutti i maschi laureati in medicina, oppure militari di carriera, e mi iscrissi a Scienze Forestali. Ciò contrariò non poco papà che era un illustre professore di medicina legale all’università di Pavia. Un giorno papà, superato il trauma della laurea in Scienze Forestali, mi portò nella stanza da studio di Cabella dove facevano bella mostra tutti i libri di medicina del ‘500 e del ‘600: la nostra come ho già detto è una storia di famiglia che si perde nella notte dei tempi. Ma tra i libri di letteratura medica c’era uno scaffale dedicato completamente all’apicoltura con testi sui quali si erano formati i miei avi. Tra questi il più noto era quello di Giuseppe Maria Garibaldi che aveva scritto un trattato di apicoltura dal titolo “La storia naturale delle api”, presumibilmente uno dei primi trattati di apicoltura in lingua italiana. Dopo aver letto il libro chiesi a mio padre quando era iniziata la storia apistica della nostra famiglia, e lui disse che nella casa di Cabella le api ci erano sempre state fin da quando nel 1828 Dionisio Garibaldi, figlio di Giuseppe Maria Garibaldi, la comprò e ci impiantò il primo apiario che era del padre. Nella corrispondenza di Giuseppe Maria Garibaldi, che teneva con famosi entomologi e biologi del tempo, si va da Spallanzani per arrivare a Carlo Bonè, trovo una delle lettere autografe. E sorpresa delle sorprese, scopro che si riferisce all’apiario del nonno tal Giuseppe Garibaldi, cosi riesco a documentare un percorso storico senza precedenti al mondo: Giuseppe Garibaldi nasce a Genova nei primi del settecento; a Genova, il figlio Angelo ha le api e il figlio di Angelo Giuseppe Maria scrive un trattato. Io sono andato a cercare altre notizie importanti ed ho scoperto che il nostro avo famoso, Giuseppe Garibaldi, faceva l’apicoltore a Caprera e se come descrive lo stesso Garibaldi era la sua passione preferita, io aggiungo che era la passione di tutta la famiglia.
 
Quali sono le difficoltà che si incontrano nella sua zona?
Quelle ricorrenti in tutta Italia. I due buchi che ci sono ora nella nave, per usare una metafora, sono: innanzitutto il prezzo del miele, quando si vende il miele a 1,40 euro e c’è difficoltà a ritirarlo è chiaro che di qualsiasi cosa vogliamo parlare in merito è irrilevante; poi la situazione sanitaria disastrosa. Un doveroso distinguo, mentre la situazione sanitaria si può affrontare, per quanto riguarda il prezzo del miele la cosa non è sanabile. E ne spiego subito la ragione. Io che ho una grande azienda devo lavorare “ob torto collo” avvalendomi di dipendenti. Non avendo apporto famigliare, devo sostenere un costo di produzione che tocca 3,00 euro al kg e allora vendere il miele a 1,40 euro diventa insostenibile da un punto di vista professionale: questa non è certo un’economia d’azienda. Certo, anche se la situazione sanitaria non è una falla che ti fa affondare, come il prezzo del miele, presenta dei risvolti preoccupanti. Un altro dei problemi più stringenti è rappresentato dalle molecole chimiche che girano per le campagne. Per fortuna, noi abbiamo la possibilità di far svernare le api in montagna e questo ci aiuta a passare l’inverno meglio rispetto agli altri. In primavera, purtroppo, siamo costretti a tornare in pianura in un territorio super inquinato dalla chimica e quindi soffriamo dei problemi che affliggono tutti. Una pericolosa insidia la presentano anche i presidi sanitari adoperati male, in quantità e momenti sbagliati. Insomma, da qualsiasi parte la si voglia vedere le cose vanno male; c’è da stare certi che se avessimo un mercato al dettaglio in grado di assorbire la totalità del prodotto tutto andrebbe per il meglio. Una notazione: un apicoltore con più di 500 casse non riesce a vendere al dettaglio l’intera produzione.
 
Lei fa nomadismo, è inevitabile questa pratica?
Sì, perché i mieli tradizionali, tanto per fare un esempio castagno e millefiori, non hanno un sensibile valore di mercato. Allora l’apicoltore che vuole ricavare reddito dalla propria attività deve produrre mieli speciali. Se si vuole un prodotto remunerativo che abbia valore aggiunto occorre produrre mieli ricercati. In Sardegna abbiamo il corbezzolo, in altri siti la lavanda, il rosmarino. Per quanto ci riguarda abbiamo tre varietà ancora oggi remunerative come il miele di rododendro, di tiglio e di alta montagna per il quale a Cortina si pagano anche 15,00 euro il kg.
 
Ci sembra di capire che la diatriba che coinvolge nomadisti e stanziali non ha ragione di essere.
Direi proprio di no. Io sono un nomadista atipico perché faccio nomadismo a casa mia. Però quando porto le api in provincia di Udine sono considerato un estraneo. Il problema non sta nelle api, tutto si gioca su temi come apertura, civiltà, fedeltà ai principi del Vangelo. Chi porta le api a Cercivento, comune in provincia di Udine, deve essere rispettato come chi le porta a Gorizia. Gorizia non è di esclusiva proprietà di tutti quelli che ci abitano. Siamo tutti figli della stessa patria e abbiamo tutti diritto di mangiare, vivere e godere della bellezza della Natura.
 
Un Apicoltore deve essere anche un esperto botanico?
Senza dubbio. Per quanto mi riguarda ho conseguito la laurea in Scienze Forestali proprio perché ritenevo che lo studio della flora fosse determinante per fare apicoltura. Ma non di sola flora si deve nutrire l’apicoltore, c’è anche la biologia, la fenologia (ndr, branca dell’ecologia che studia i rapporti fra i fattori climatici e la manifestazione stagionale di alcuni fenomeni della vita vegetale), la fitogeografia. Naturalmente, un apicoltore professionista che intende ricavare il massimo dalla propria miniera, e la miniera è la Natura, la deve conoscere. E’ anche vero che anche essere giudiziosi autodidatti è più che sufficiente. Non a caso ho conosciuto apicoltori che avevano la terza media che davano dei punti a me che sono laureato. Questo perché si tratta di uomini che hanno provato e sperimentato sulle proprie giornate, sulla propria pelle una cultura profonda del territorio. Sanno quando inizia la fioritura, riconoscono i primi segnali di avvio, quando finisce, quando produce, quando non produce. Ad esempio, in Slovenia collocano delle bilance sotto gli alveari e vale più di qualsiasi altro studio: la mattina le pesano e vedono quando parte il raccolto. A questo punto chiamano a raccolta gli apicoltori e gli dicono: “sbrigatevi a venire sul raccolto, altrimenti lo potete perdere”.
 
Che tipo di apicoltura pratica?
Io con il gasolio ad 1,20 euro al litro e il costo della manodopera a tariffa sindacale non posso più permettermi di fare nomadismo come facevo venti anni fa, quando portavo seicento casse sull’acacia. In più, con il miele di acacia a 2,20 euro al kg e il millefiori a 1,40 euro che nomadismo posso fare? Oggi pratico del nomadismo mirato verso le fioriture che garantiscono più reddito, come dicevo prima rododendro, tiglio e miele di alta montagna. Ho sperimentato un tipo di apicoltura a nomadismo rapido e a bassissimo costo che è quella basata sui carrelli, dove le casse sono saldate e quindi è impossibile rubarle. Su ogni carrello ci sono 21 casse: io lo lascio in un sito e produco così il mio miele. Ho tentato la strada del biologico, conduco un’azienda certificata, per quello che riguarda il comparto vegetale. Abbiamo anche avviato il percorso di certificazione per il comparto apistico, ma oggi, realisticamente, conoscendo bene l’apicoltura e gli apicoltori, dico che un apicoltore onesto deve riconoscere che è impossibile gestire un apiario professionale da un punto di vista biologico. Cosa vuol dire oggi fare biologico? Con tutte le molecole e microincapsulati di cui le nostre campagne sono inquinate, non è possibile fare apicoltura biologica. La si può praticare solo se ci si limita a fare apicoltura nella fascia montana. Chi fa apicoltura in alta montagna non riesce a sopravvivere perché le api muoiono per cause diverse come nosemiasi, avvelenamenti, presenza di tossine, varroa, virosi non ben conosciute. Inoltre, c’è da considerare la mortalità invernale dovuta alle temperature rigide: capita che gli sciami non riescano a sopperire alle api morte. In definitiva, un apicoltore che opera in montagna è portato al declino produttivo e lo dico io che sono 30 anni che faccio apicoltura in alta montagna. L’alternativa? Dobbiamo andare in zone più miti, ma lì abbiamo il grande problema dell’inquinamento. Per la varroa necessita dire che ha una crescita biologica talmente rapida che i principi attivi naturali non riescono a controbattere. Non a caso, i colleghi onesti che fanno biologico stanno subendo un crack in termini di perdite che li mette di fronte a una scelta: o continuano a dire che sono biologici e purtroppo poi passano alla chimica, oppure riescono ad ammettere la loro incapacità e passano ad una chimica ragionata, essenziale, di cui io mi avvalgo. In primavera si fa un trattamento con i principi attivi naturali, giusto per abbassare la carica della varroa e di tutto quello che si porta dietro, e poi alla levata dei melari un trattamento chimico mirato e poi di nuovo a dicembre con l’acido ossalico: solo cosi si riesce a campare. A campare dico, perché l’apicoltura che io ho conosciuto dal 1977 al 1987, quando è entrata in scena la varroa, è cambiata totalmente. Questo cambiamento è andato avanti fino al 2004, dopodiché siamo entrati in una nuova fase “la nube della non conoscenza”: api che muoiono, spopolamento. In America sono sparite milioni di api, però non abbiamo nessuna risposta.
 
Cosa direbbe agli Apicoltori che usano antibiotici?
Li capisco, sono disorientati, costretti come sono a confrontarsi con una situazione che non riescono a gestire e sono capaci di usare anche l’arsenico per salvare le api. Ribadisco quello che ho precedentemente affermato, se il prezzo del miele si attestasse sui 10,00 euro al chilo non ci sarebbero tutti questi problemi, le api potremmo anche bruciarle.
 
Secondo lei è possibile fare apicoltura senza antibiotici?
Io ne sono la dimostrazione vivente: da 30 anni faccio l’apicoltore e non ho mai utilizzato antibiotici. E’ uno dei principi fondamentali della mia famiglia che, a parte il sottoscritto, è composta di tutti medici. Per noi le medicine sono l’estrema “ratio”. Mio padre afferma che addirittura bisogna andare in ospedale cinque minuti prima di morire. Dunque, ricorrere alle medicine in fase preventiva è come la guerra preventiva di Bush, non serve a niente. Oggi l’unico argomento valido che abbiamo a disposizione nei confronti dell’aggressione del miele cinese che viene venduto a 0,70 centesimi al kg, sdoganato a Trieste, a Napoli, o dove arriva, è basato sulla qualità. La qualità si realizza soltanto con un prodotto integro.
 
Utilizza particolari tecniche per migliorare il lavoro in apiario?
Quella del carrello. Per tutti gli apicoltori che vogliono ritornare alla fase della vendita diretta penso che il carrello sia un’ottima trovata per facilitare di molto il lavoro. Purtroppo oggi la manodopera costa. Oggi spendo circa 140 mila euro l’anno in costi di gestione della mia azienda e di questi soldi la parte che se ne va per il trasporto e per la manodopera sono predominanti ed elevatissimi. Allora cosa influisce nel costo del miele? Per un 50% la manodopera, per un 20% il trasporto. Una domanda sorge spontanea: il 50% rappresentato dalla manodopera come ridurlo? Di sicuro, aumentando la tecnologia. Non a caso, mi avvalgo del massimo di tecnologia che si può avere sul mercato, ovviamente compatibile con gli spazi del mio laboratorio. Grazie al carrello tutte le operazioni di carico e scarico delle arnie, di trasporto dei supporti le elimino, con sensibili risparmi. In questa fase apistica un apicoltore deve essere anche un bravo economo. Bisogna mettersi a tavolino e fare quella che si chiama analisi dei costi e considerare, punto per punto, i costi e i ricavi, cercando di diminuire e razionalizzare i costi in uscita.
 
Cosa non funziona nel mondo apistico?
Non funziona il frazionamento: non riusciamo a metterci d’accordo. Si tratta di un problema che conosco da sempre, da quando ho cominciato a fare l’apicoltore già dicevo mettiamoci d’accordo. Avevo di fronte degli anziani che praticavano apicoltura ancora come si faceva prima dell’avvento della varroa, quando vendevano il miele al prezzo che volevano, e questo non è più possibile. La prima cosa è mettersi d’accordo, in apicoltura si è fatta sempre la guerra al prezzo migliore, ma il prezzo migliore è quello del miele cinese a 0,70 centesimi. Se dobbiamo confrontarci con questo prezzo noi scompariremo. A tutti gli apicoltori italiani lancio questo messaggio: mettiamoci d’accordo. Per esempio, a me, a Cercivento, il miele costa 3,05 euro e a te a Torino costa 2,95 euro, più o meno questi sono i prezzi: le tariffe sindacali sono uguali in tutta Italia, il gasolio è uguale in tutta Italia, dovunque si compra un furgone costa uguale, tutto costa uguale. In pratica, abbiamo un prezzo globalizzato per tutta l’Italia e su questo prezzo costruiamo un valore. Quanto vale il miele all’ingrosso? 3,00 euro al chilo? Quanto vale al dettaglio? 6,00 euro al chilo? La morale è che noi tutti dobbiamo vendere il miele al medesimo prezzo. Poi nelle zone privilegiate come Cortina venderanno giustamente il miele a 15,00 euro. E’ imperativo fare blocco, poi comprendere che occorre migliorare in tecnologia.
 
Cosa funziona nel mondo apistico?
Una passione sviscerata, un affetto che viene da dentro e che non conosce ostacoli. L’amore è più forte di tutto e quindi l’apicoltura sopravviverà ad ogni avversità: ci sarà sempre qualcuno che rimarrà innamorato delle api. Io potrò anche cambiare lavoro ma il mio piccolo apiario lo avrò sempre e mi meraviglierò ogni volta che aprirò un alveare della straordinarietà del creato. Per un cattolico credente guardare all’interno di un alveare è osservare l’Universo, il Creato, l’Incredibile.
 
Cosa funziona nel mondo apistico?
L’insegnamento più grande, lo vorrei trasmettere a tutti gli apicoltori, è stato quello del mio maestro, l’apicoltore Gino Andriolo. Mi ha detto una cosa fondamentale: “Ricordati Renato, non sei tu apicoltore che devi insegnare alle api a fare le api ma sono le api che ti devono insegnare a fare l’apicoltore”. Da qui ognuno tragga le sue conclusioni.
 
Un episodio particolare legato alla sua attività?
La cosa più straordinaria è stata quella di ricevere da mio padre il libro di Giuseppe Maria Garibaldi. Vedendo questo libro in pergamena dal titolo “La storia naturale delle api” si è aperta una pagina sconosciuta della mia vita, estremamente significativa. Leggere quelle lettere di apicoltura della fine del ‘700 e scoprire che la mia passione per le api veniva da 300 anni prima è stato elettrizzante.
 
Aspettative future della sua attività?
Devo chiudere con una nota negativa, nel senso che non sono in grado di valutare un futuro per l’apicoltura, non sono in grado di dire ai miei colleghi apicoltori che fra dieci anni saremo ancora in grado di fare gli apicoltori. Però come dico sempre a tutti tenete duro, e sentite dentro quella passione che vi ha fatto innamorare delle api, non vi scoraggiate.
 
 
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Renato Garibaldi
Giuseppe Garibaldi «eroe dei due mondi» in una foto del 1866.
 
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