Speciale Apicoltori - n. 562, dicembre 2006
Gli uomini dell'Apicoltura in Italia
[Condizioni di accesso ai contenuti di Apitalia Online]
 
 • Francesco Campese
Non c’è solo la passione per l’ape
di Massimo Ilari - Alessandro Tarquinio
 
 CARTA DI IDENTITÁ
 nome  Francesco
 cognome  Campese
 età  56
 regione  Veneto
 provincia  n.d.
 comune  Vicenza
 nome azienda  Apicoltura Campese
inizio attività  1977
arnie  450
 apicoltura  Nomade e Stanziale
tipo di api  Apis Mellifera Ligustica
 tipo di miele  Acacia
Castagno
 miele prodotto  250 quintali/anno
 
 • L'Intervista
 
Come ha iniziato l'attività di apicoltore?
Tutto ha preso il la dopo aver frequentato diversi apicoltori, in un periodo in cui ero studente. Praticamente dai 18 ai 20, fino ai 27, quando ho fatto la scelta di questo mestiere. Frequentando l’università, poi, ero costantemente in contatto con apicoltori locali, e parlavamo ogni giorno di api. Alla fine ho lasciato l’università, un po’ prima di portarla a termine, e ho deciso di iniziare l’attività di apicoltore. Ho cominciato con un mio amico, il primo anno, e in seguito mi sono sposato e da quel momento ho fatto la scelta di mettermi in proprio. Gli esordi sono stati molto difficoltosi perché dovevo autofinanziarmi e per superare le difficoltà decisi di fare anche il falegname insieme a mio padre. Realizzavamo materiale apistico che poi riuscivamo a commercializzare nella regione Veneto. Nel 1981 avevo già raggiunto un discreto numero di alveari e allora è diventato inevitabile fare solo apicoltore. In quel periodo era assai problematico essere riconosciuti come apicoltori, così ho dovuto cercarmi due campi in affitto per 450 casse. In ogni caso ho avuto comunque dei problemi prima che mi riconoscessero l’attività di apicoltore perché non era considerata agricola. Quello dell’apicoltore era un lavoro sconosciuto. Perché? C’era appena un professionista per provincia e niente più. In seguito, ho cominciato subito a produrre sciami e api regine e da lì ho iniziato un’attività molto più intensa di quella di produrre soltanto miele. Così dopo tre o quattro anni vendevo già sciami e api regine proprio nel momento in cui le richieste registravano un vero e proprio boom. Non a caso mettendo a confronto i prezzi di miele, sciami e api regine di trent’anni fa esce fuori che in quel periodo l’apicoltura era molto più remunerativa, soprattutto perché non c’era la concorrenza di Argentina, Cina e altri paesi produttori di miele.
 
Per quali motivi ha iniziato?
E’ stata obbligata. E ve ne spiego la ragione. Avendo frequentato per alcuni anni le api, soprattutto il sabato e la domenica, vedevo nell’apicoltura un’attività che dava sfogo al mio desiderio di creatività. Le api sono malleabili e permettono di condurre sperimentazioni e di sottoporle a verifica. Poi una buona parte l’ha giocata anche l’incoscienza. Non è certo mancato l’approfondimento: ho tutti i libri che stimolano a verificare quello che si è letto. Poi, in realtà, non si sa dove si va a parare perché manca proprio l’esperienza. La soluzione? Ho cercato sempre di stare in mezzo alle api. Anche se agli esordi non erano molte ho potuto fare esperienza in fretta e mettere in piedi una bella azienda apistica, senza mai aver preso un contributo. Quello che ho realizzato l’ho fatto con le mie forze, con mia moglie e, quando sono cresciuti, con l’aiuto dei miei figli anche se adesso stanno per laurearsi e non riescono come prima ad aiutarmi. E’ stata dura però c’è da dire che quando si fa un lavoro che piace il duro lo vedono gli altri.
 
Che cosa vuol dire avere una passione per l’Ape?
E’ una cosa travolgente e si riesce ad avere una dose adrenalinica così alta che permette di lavorare notte e giorno e in condizioni di disagio estreme, specialmente qui nel nordest, una zona con un clima assai avverso e nella quale siamo sempre soggetti a ritorni di freddo, pioggia e vento. La passione all’inizio era una molla portentosa, mentre adesso forse non è neanche più passione ma un lavoro fatto di fino. Con il passare del tempo, invece, irrompono la gratificazione economica e psicologica.
 
Quali sono le difficoltà che si incontrano nella sua zona?
Prima di tutto non ci sono fioriture predominanti, c’è poca acacia, un po’ di bosco e di castagno. In più, non abbiamo girasole, erba medica, mais. La ragione? La zona è ricca dal punto di vista del cittadino. Poi, chi ha un pezzo di terra o una pianta utilizza, senza problemi, prodotti inquinanti o diserbanti. Come che sia predominano prodotti che originano non pochi problemi. Si tratta di prodotti che chi pratica un’agricoltura normale, leggete non intensiva, non utilizzerebbe mai per l’alto costo. Tutt’altro discorso per quanti ricavano un buon reddito da livelli produttivi elevati. Inoltre, anche quel poco di fioritura che abbiamo molto spesso ci crea grossi inconvenienti per gli avvelenamenti derivanti dai trattamenti in agricoltura. Il grosso problema è che l’ambiente climatico qui da noi, mi ripeto, è assai inospitale. I ritorni di freddo sono un fatto costante e piove sempre. Basti pensare che in alcune annate abbiamo alimentato le api con le acacie in fiore: i rami si rompevano sotto il peso della pioggia, senza produrre niente ovviamente.
 
Pratica il nomadismo?
Noi facciamo nomadismo, anche se c’è da dire che risolve ben pochi problemi: o si va in Piemonte, ma sono troppi i chilometri da percorrere, o in Toscana a fare il girasole, quando c’era. Ad un certo punto, però, abbiamo deciso che non ne valeva la pena e facendo produzione di api regine e sciami abbiamo ottimizzato al massimo le risorse, cercando di portare avanti soltanto le cose che ci riesce di fare in casa. Ottimizzando al massimo le famiglie e quindi cambiando regine ogni anno. Ricorro anche a un sistema che è incentrato sulla preparazione delle arnie con due o tre regine, popolandole in primavera. Una scelta azzeccata, questa, che ha dato delle grosse produzioni. Balle? No di certo, visto che con un arnia a due regine abbiamo prodotto, per anni, una media di 150 kg per cassetta l’anno, quando c’era la melata. Adesso un po’ meno perché abbiamo solo acacia e castagno. Noi pratichiamo soltanto un piccolo nomadismo, a corto raggio. Del resto, il lungo nomadismo richiedeva grandi investimenti di mezzi economici, di tempo e di fatica.
 
Un Apicoltore deve essere anche un esperto botanico?
Sicuramente sì. L’apicoltore deve conoscere i tempi dei fiori, e non è così problematico visto che noi sappiamo già da molti anni quando comincia una fioritura e se sarà buona o no. Si presentano problemi di commercializzazione nella sua zona? I primi anni no, c’era il boom del miele. Tutti lo cercavano e lo vendevo molto bene. Poi con il passare del tempo è subentrata l’importazione da altri paesi e i problemi sono stati subito forti. Decisi allora di conferire il mio miele alla ditta Rigoni, con il quale, in seguito, è nata l’idea di mettere in piedi una linea Rigoni biologica. Agli apicoltori voglio dire che non è un problema fare miele biologico, tutto il miele dovrebbe essere biologico. Oggi sembra soltanto un nome da aggiungere in più in etichetta per fare mercato. Spesso non capisco l’ostilità dei miei colleghi verso il miele biologico. Sarebbe bello che facessero conoscere le loro ragioni dalle pagine di Apitalia, potrebbe essere un dialogo utile a tutto il settore. Occorre smetterla di parlare tanto per parlare. Anche io pratico apicoltura biologica, eppoi c’è da dire che la dicitura “biologico” garantisce, sicuramente, una migliore quotazione sul mercato.
 
Cosa direbbe agli Apicoltori che usano antibiotici?
Un po’ di storia non guasta. Gli antibiotici li abbiamo usati tutti prima ancora che se ne accorgessero i servizi veterinari e le Asl. Gli apicoltori avevano già in passato dei grossi problemi di malattie in apiario ma il ricorso agli antibiotici può essere fatto risalire agli anni ‘60: nessuno è venuto mai in loro aiuto e allora sono stati costretti a risolvere le emergenze da soli. In seguito, grazie al passaparola, il loro impiego è diventato generalizzato. Per l’oggi direi di non parlare più di antibiotici e ve ne illustro il motivo. L’allarme antibiotici arreca solo danno all’apicoltura e al consumo del miele. Chi compra miele, ormai, chiede soltanto se ci sono antibiotici o meno. Non si tratta di un invito a far finta di niente ma a prendere coscienza del problema e a battere altre strade per risolverlo. Tutti insieme. In ogni caso, sono certo che molti apicoltori hanno smesso di utilizzare antibiotici perché hanno paura. Logicamente se un acquirente non ti compra il miele perché usi antibiotici tu sai bene che si arriverà a non vendere più niente. E’ automatico che gli apicoltori intelligenti non impieghino più antibiotici, ma c’è bisogno ora che anche la stampa o i responsabili del settore non parlino più solo degli antibiotici ma dei problemi dell’apicoltura.
 
Quali sono?
Come non si fa a vedere la disperazione del settore? Agli apicoltori viene proposto il miele a prezzi stracciati: il millefiori a 1,20 euro, quando il mio operaio riesce a venderlo in Romania a 1,80 euro. Con questo voglio dire che come prezzi siamo al di sotto dei paesi dell’Est. Io ho grossi clienti a cui vendo le api e che hanno molti alveari: producono molto miele e sono disperati. E ve ne illustro la ragione. Poniamo il caso che un apicoltore produca 200 quintali di miele e che gli vengano offerti, al massimo, 2,00 euro al Kg: tirando due somme incassa 40.000,00 euro di cui ventimila li ha già spesi in nafta per arrivare a quelle produzioni. Con queste cifre non si può mantenere una famiglia. A tutto ciò vanno aggiunte le tasse: chi emerge dal sommerso è completamente in regola e gli oneri non mancano. Qualcuno è pronto a dire che 200 quintali sono tanti, ma non considera che per centrare quei quantitativi occorre un impiego non indifferente di manodopera, mezzi e tanto, tanto lavoro. Vi parlo di queste cose perché siamo arrivati ad un punto critico. Basta parlare di antibiotici, peggiorano soltanto la situazione che è già molto grave. Gli apicoltori, quelli intelligenti, oramai hanno smesso di ricorrere agli antibiotici. Non è certo casuale che io riceva tutti i giorni telefonate di apicoltori che mi chiedono cosa devono fare per affrontare la covata guasta. Se ci si sofferma un attimo a riflettere viene fuori che allora lo sanno che non si possono usare gli antibiotici. Se hanno la covata guasta vuol dire che non usano niente. Per quanto mi riguarda gli consiglio sempre, per ora, di bruciare e poi si vedrà cosa si potrà fare in futuro. Nell’immediato si può sicuramente operare una selezione. Per quanto mi riguarda ho selezionato un ceppo che pulisce la virosi senza nessun problema, però non è detto che le nipoti di queste regine lo faranno.
 
Utilizza particolari tecniche per migliorare il lavoro in apiario?
L’apicoltura stanziale è sempre manuale. Unica eccezione il nomadismo nel quale ci si può aiutare con qualche mezzo meccanico. Io ho cercato di aumentare la produzione pro-capite per cassa con la sostituzione annuale di regine, cercando anche di avere dei ceppi abbastanza di spinta. Eppoi, negli ultimi otto anni ho tentato di attuare delle piccole innovazioni come l’arnia a due regine, che è molto semplice come realizzazione, o a tre che è di semplice gestione. Come che sia non si hanno problemi con una famiglia normale, forte. C’è però da ricordare che qui da noi le famiglie sono spinte molto spesso alla sciamatura perché ad aprile o a maggio è possibile che si presentino otto o dieci giorni di mal tempo consecutivo e allora la famiglia entra in febbre sciamatoria e diventa difficile gestirla.
 
Come lotta contro la varroa?
Principalmente con l’ossalico. Noi avviamo i trattamenti a metà luglio, a volte anche prima quando togliamo i melari subito dopo il castagno. C’è da dire che quest’anno ho iniziato con l’acido ossalico sublimato, per intenderci con il fornelletto. Negli ultimi anni però riscontro sempre dei problemi. Ci sono di frequente quelle due o tre famiglie che vanno a saccheggiare e presentano percentuali elevate di virosi. Che fare? Le togliamo e mettiamo in pratica il blocco della covata, anche se non è apprezzato da nessuno. Secondo il mio modo di vedere è una soluzione di certo difficile da praticare ma è da proporre a tutti: una famiglia che attua il blocco di covata non solo pulisce tutto ma è anche facilissimo pulirla dalla varroa. Basta un po’ di acqua, zucchero e ossalico, e poi dopo aver pulito tutta quella covata divisa in vari stadi, peste e parapeste, la famiglia riparte dopo aver fatto una sospensione di 20 giorni. Riparte con uno slancio tipico dello sciame. Con una covata nuova, pulita e compatta. Per noi è fondamentale arrivare ad avere sempre le api invernali, qui nel nordest, mentre in altre zone possono anche zoppicare. Nella nosra zona se non si arriva con le api invernali a fine ottobre la famiglia è sicuramente persa.
 
Cosa non funziona nel mondo apistico?
Purtroppo c’è una grossa fetta di persone che fanno un’apicoltura chiacchierata e per fortuna c’è una piccola fetta di apicoltori che invece praticano un’apicoltura vera. Cosa c’è che manca? Appare in vista soprattutto l’apicoltura chiacchierata: i problemi sono tutti risolvibili, tutto è facile e semplice. Con le chiacchiere si va avanti sempre e comunque senza conoscere tecnica, api , selezione. Poi chi dice di vendere miele “pulito”, perché ha le api pulite, viene da me a comprare il miele e lo commercializza come proprio perché ha le casse vuote. Solo così si riesce bene a fare apicoltura chiacchierata.
 
Cosa funziona nel mondo apistico?
C’è una parte di apicoltori che amano molto l’associazionismo e grazie a ciò riescono ad aggregare il prodotto e a venderlo in maniera remunerativa. Bisogna dire che ci sono anche molti apicoltori che hanno una passione e un amore folle per le api. Tutti questi, pur nei limiti delle loro conoscenze, riescono a mantenere una presenza costante delle api davanti casa. Ciò non è detto che sia normale: sì, molto spesso si posseggono le cassette però le api muoiono ed è d’obbligo ricomprarle. La scelta dell’associazionismo non è certo criticabile, in apicoltura quando ci sono forme di collaborazione è sempre positivo. Uniti si è più forti, ce lo ricordano ogni giorno le api e si riesce a dettare anche il prezzo sul mercato.
 
Cosa rappresentano le Api per lei?
Per me l’ape rimane, comunque, una macchina produttiva. Vede, io non riesco a dormire se capisco che le mie api hanno fame. Voglio essere sincero. Non è che non dormo perché le amo, semplicemente non riesco a dormire se il mio strumento lavorativo ha dei problemi. Dunque, per centrare l’obiettivo le tratto nel migliore dei modi, perché voglio tirare il massimo possibile dalle api. Così, se hanno bisogno di mangiare le rifornisco del mangiare; se devo ammazzarle le ammazzo: se morte mi arrecano un vantaggio allora non ho dubbi, finiamola con le ipocrisie.
 
Ci racconti un episodio particolare legato alla sua attività.
Nel 1982, quando ho cominciato a fare regine, rifornivo una grosso apicoltore di Bergamo. Un giorno vado e gli consegno delle api regine. Dopo poco tempo mi dice che due di queste regine le ha rivendute, a un apicoltore vicino casa mia. Dunque, un apicoltore della mia zona ha deciso di prenderle a Bergamo invece che da me... forse nessuno è profeta in patria.
 
Aspettative future della sua attività?
Sono arciconvinto che l’apicoltura sopravviverà. La passione degli apicoltori per la genetica garantisce la sopravvivenza dell’allevamento. Certo che come attività redditizia se i grossi invasettatori di miele non modificano i prezzi sarà molto dura. Non possiamo fare riferimento soltanto al mercato corto, perché è una strada molto difficile per chi produce tanto miele.
 
 
 • Le immagini di questa intervista (click per visualizzare)
 
© by Apitalia - Tutti i diritti riservati
 
[Torna all'indice generale]